Nell’autunno 1958, Thom Steinbeck aveva quattordici anni e altrettanti ne aveva Susan, una compagna di scuola che “era molto carina, e molto intelligente”. L’attrazione è corrisposta, ma Susan è una ragazza molto seria, concentrata sugli studi, sulla musica (ascolta Bach e Dvořák) e sulla poesia. In buona sostanza, è una passione platonica, ma abbastanza intensa da indurre il giovane Thom a scrivere al padre per annunciare la scoperta dell’amore. La corrispondenza non è inusuale: John Steinbeck era prodigo di consigli epistolari ai figli e non perse l’occasione per confrontarsi su un terreno tanto fertile e insidioso con il primogenito. Adeguata per l’occasione in un’elegante cornice grafica, la Lettera a Thom sull’amore è composta da due pagine, molto ponderate: le avvertenze cominciano fin da subito, sono misurate e perentorie. Essere innamorati “è la cosa migliore che possa capitare”. Non a livello metaforico o simbolico, ma proprio “in pratica”. L’avviso, a tutela della spontanea bellezza, è molto chiaro: “Non permettere a nessuno di ridurla a qualcosa di piccolo o di poco conto”. La parte immediatamente successiva è quella centrale. L’amore è multiforme, mutevole, variabile, ma noi, non di meno, dipendiamo dalla sua espressione. È un po’ in contraddizione con la premessa precedente, ma Steinbeck sa di dover esplorare tutte le strade per trovare quella giusta: l’amore può assumere sembianze pericolose, può diventare “un sentimento egoista, cattivo, possessivo, egocentrico”. Il formato considerato “più alto” da Steinbeck, “consiste nel riconoscere un’altra persona come unica e preziosa”. Il finale, quasi fosse il verso di una poesia, è un’elegante chiusura e insieme, un’accorata esortazione: “E non preoccuparti che possa non funzionare. Se è la cosa giusta, succede. La cosa più importante è non avere fretta. Le cose buone non vanno mai perdute”. Il monito non cancella l’entusiasmo per la natura biunivoca e traballante dell’amore: “A volte per una ragione o per l’altra quello che provi non è ricambiato ma questo non fa il tuo sentimento meno prezioso o meno bello”. Nella Lettera a Thom sull’amore, colpisce la squisita semplicità delle parole, la chiarezza delle frasi che sembrano strofe di una canzone, i concetti espressi con linearità, limitati all’essenziale, le parole (dirette, naturali) incastonate una per una. La proprietà del linguaggio di Steinbeck, la facilità nell’esprimere una profondità, anche all’interno del rapporto tra genitore e figlio, è la prova di un’attitudine costante e innata, ma anche il frutto di un pensiero efficace, capace di toccare tutta la complessità dell’amore con il dono dell’immediatezza. Si tratta di un piccolo frammento, ma è il riflesso di un’arte delicata che John Steinbeck applica con compostezza, come se si fosse adeguato alla riflessione di Robert Penn Warren quando diceva: “Che cos’è l’amore? Un altro nome per definirlo è conoscenza”. A proposito, ecco qualche notizia in più: all’epoca della corrispondenza John Steinbeck era ormai al suo terzo matrimonio (con Elaine, che “sa che cos’è l’amore”) e, come pare evidente, non gli mancava l’esperienza necessaria a dispensare consigli. D’altra parte, Susan scomparirà senza particolari drammi dalla vita di Thom, che in seguito sposerà poi Gail, con cui resterà fino alla sua morte, sopraggiunta un paio d’anni fa.
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