Per essere un deserto, c’è parecchia vita nelle strade dello Utah che Ben Jones percorre con un autoarticolato carico di gelato invenduto. Il suo tratto di competenza, la statale 117 che si perde tra le rocce granitiche e le vestigia di quello che una volta era un villaggio minerario, attira con uno strano potere magnetico le scorie umane da tutta l’America. Resti di matrimoni, avanzi di sogni, rimasugli di sotterfugi e di fede: su una mappa dove i luoghi, non meno delle persone, sono sparpagliati un po’ a caso, il diner di Walt Butterfield, chiuso e inospitale, è il primo avvistamento, poi vengono i “due vagoni merci rossi graffiati dalla sabbia, saldati e piazzati su blocchi di cemento grigio” dove abitano Fergus e Duncan Lacey e, infine, quando è primavera ed esce dal suo letargo, lungo i margini polverosi della 117 appare il predicatore John con la sua croce in quercia massiccia. Il deserto avvolge tutti con il suo sudario bollente e, accanto al diner, un giorno Ben Jones scopre una via che conduce a una casa invisibile dalla 117 e gli si avvicina con tutte le precauzioni possibili: “A una ventina di metri dal portico mi fermai e aspettai un suo cenno. Era così che tutti, ospiti, amici e sconosciuti, si avvicinavano a un’abitazione nel deserto. Non si trattava solo di buone maniere, serviva anche a limitare allo stretto indispensabile il numero delle sparatorie”. Gli incontri sono problematici perché, come spiegava John C. Van Dyke, autore di un’enciclopedia di trentacinque volumi dedicata al deserto (e citato da Alex Shoumatoff in Leggende del deserto americano), “la vita qui non procede nella concordia e nella fratellanza. Ogni essere è in guerra col suo vicino, e in conflitto è incessante. Ogni cosa è predatore o preda”. Ben Jones, che ha già abbastanza guai da solo (tra l’altro, è sull’orlo della bancarotta), si accontenta del suo modus vivendi su e giù per la 117, ma non rinuncia a scoprire quello che una piccola deviazione gli ha offerto perché sa che quello “era il deserto, tutto arrivava insieme, che ne avessi bisogno o no. Ciò che sopravviveva aveva imparato a conservarsi, vivere con cautela e mantenere un profilo basso, persino a sembrare morto per lunghi periodi. Perseveranza e pazienza”. È così, a piccoli passi, con mille tentennamenti, che Ben si innamora (ricambiato) di Claire, attratto dal suono di un violoncello che non sa se ha sentito o visto davvero. Succede spesso: James Anderson miscela con grande abilità i sedimenti di miraggi e ricordi, comprese le motociclette d’annata di Walt Butterfield, le bizzarre consegne di Ben Jones o persino le polpette di crotalo e tutte quelle storie che si incastrano in un capolinea di arenaria, dove ci si accorge che “l’immaginazione è una delle poche cose su cui un uomo può contare, se ha la realtà per alimentarla”. Da lì, la liaison tra Ben e Claire dissotterra (e non solo metaforicamente) i relitti del passato e scatena un’affollata rincorsa di personaggi lungo la 117. Hanno tutti qualcosa da nascondere, e spesso lo fanno usando un sipario di silenzio (solo gli sceriffi e i mormoni, che poi in genere coincidono, sono un po’ più loquaci) finché “la storia segue la forza di gravità, come l’acqua in un’alluvione, alimentando nuove parti di sé per diventare un’altra cosa, più grande e imponente, finché l’entità pura che era un tempo non esiste più”. Tra colpi di scena e colpi di sole, il finale, che vede come centro di gravità permanente proprio Il diner nel deserto, diventa rocambolesco e tragico. L’esperienza nelle pieghe geologiche dello Utah scortica e brucia: il disorientamento, la solitudine, l’aridità delle strade che non hanno nome e si perdono nel vuoto prendono il sopravvento perché “il deserto, alla fine, si prende sempre ciò che vuole”. Quello che lascia è soltanto una luce abbagliante, dove i fantasmi sono più visibili delle persone, forse per effetto dei riflessi o perché “nel deserto, il confine tra ciò che è morto e ciò che è vivo spesso è confuso”. James Anderson riesce a riprodurla come se fosse un quadro di Georgia O’Keeffe, e con Ben Jones ci regala un loser di prima scelta, che sembra il protagonista di Willin’, la canzone dei Little Feat, e che avremmo potuto incontrare in Paris, Texas o in Bagdad Café.
Nessun commento:
Posta un commento