Il primo nemico ucciso,
il ritorno a casa, le ferite che non si rimarginano, i caduti e gli
incubi dei reduci, le assurde condizioni ambientali, tra chi dorme
nel fango e chi è di guarnigione all’ambasciata e mangia bistecche
tutti i giorni, la necessità di mostrarsi onnipotenti, che è il
primo passo per dimenticare ogni parvenza di civiltà o di onore:
“erano centinaia di anni che la guerra andava avanti in Vietnam”
e se questo vale per tutti, poi Wallace Terry, attraverso la voce in
diretta dei protagonisti, senza particolari intermediazioni
letterarie, costruisce la solida testimonianza di un conflitto nel
conflitto. E’ una storia orale, dove Wallace Terry ha fatto
soltanto un po’ di ordine per riuscire a raccogliere una panoramica
di memoriali comprensiva di tutti gli ordinamenti militari,
dall’esercito ai marines, fino all’aviazione e alla marina. Il
tono è sempre informale perché Wallace Terry mantiene la condotta
esemplare del corrispondente, che poi è il lavoro che è andato a
fare laggiù, ma ciò non gli impedisce di chiarire fin
dall’introduzione il suo specifico punto di vista: “Negli ultimi
anni di presenza americana in Vietnam, neri e bianchi combatterono
per sopravvivere a una guerra che sapevano che non avrebbe potuto
essere vinta in senso convenzionale. E, spesso, lottarono gli uni
contro gli altri. Il conflitto, che divise l’America come non
accadeva ai tempi della guerra civile, si trasformò in un doppio
campo di battaglia in cui soldati americani si scontravano contro
altri soldati americani”. Le testimonianze, sempre in prima
persona, non sono univoche. Il minimo comune denominatore è la
discriminazione, la diffidenza, l’ignoranza, la solitudine.
Combattono ma vogliono sentire i Temptations, Sam & Dave, le
Supremes, Aretha Franklin. Si ritrovano a entrare in bunker su cui
sventola la bandiera confederata e condividono la stessa trincea con
volti che, a casa, portavano le maschere del Ku Klux Klan. Il vero
punto di domanda riguarda tutti, perché al ritorno chi ha dato una o
più parti di sé (e non solo in senso metaforico) per la prosopopea
di una nazione, si ritrova ancora addosso le stesse contraddizioni,
irrisolte. Non soltanto una frattura verticale, ma proprio un’idea
in frantumi come commenta Stephen A. Howard: “Il Vietnam ti insegna
a essere bugiardo. A essere un ladro. A essere disonesto. Ad andare
contro tutto quello che hai imparato. Ti insegna tutto quello che non
avevi bisogno di sapere perché vivevi in una menzogna. E la menzogna
è che non dovevi essere lì, che quelli non erano affari tuoi,
innanzitutto. Che non eri lì per difendere la democrazia. Che non
stavi proteggendo il tuo paese. Ed è questo quello che ti logora
veramente. Come soldati americani combattenti, ci era stato detto che
stavamo combattendo una guerra civilizzata. Non c’è nulla di
civilizzato in una guerra”. Non c’è molto da aggiungere e forse
è per quello che le frasi sono brevi, troncate ai bordi, taglienti,
non edulcorate, perché i Buffalo Soldier parlano con la lingua del ghetto, spesso avvolta in un alone di fatalismo, come quando Reginald “Malik” Edwards racconta che “era come se i marines fossero sempre a caccia di qualcosa che andasse storto. E qualcosa andava sempre storto”. Per gli afroamericani la guerra si rivela ambivalente ed esponenziale, in tutta la sua drastica realtà: sconfitti in battaglia, emarginati a casa. Un lungo e dolente blues.
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