A
volte basta una breve intervista per riuscire a penetrare nel mondo
di uno scrittore. Succede in questo colloquio tra David Ryan e Rick
Moody, che procede per tentativi, anche se sempre all’interno di un
perimetro molto cordiale e di reciproca attenzione. E’ quello che
ci vuole perché l’approccio di Rick Moody è un’arma non
convenzionale, con un metodo, se è un metodo, sfuggente e allergico
alle regole. Lo mette subito in chiaro, allontanandosi senza
esitazioni dal primo, intoccabile comandamento del bravo narratore:
“Per quanto riguarda il mestiere della scrittura, sono restio a
ogni tipo di buon senso tradizionale: oppongo sempre resistenza al
vecchio adagio secondo cui bisogna scrivere solo di ciò che si
conosce bene”. Pur partendo da letture rispettabili (Hemingway
prima di tutti), Rick Moody si è ritagliato uno spazio particolare
nell’articolare il suo tentativo di “comprendere meglio cosa
significa essere umani”. Pur non avendo alcuna intenzione
esaustiva, Col
pianoforte ero un disastro
riesce ad allineare alcuni suggerimenti sulle visioni di Rick Moody
rispetto alla forma, allo stile, agli obiettivi e alle speranze. La
moderazione e i canoni sono superati già nelle fasi iniziali del
dialogo con David Ryan e ben presto le ricognizioni autobiografiche
cominciano a confondersi e a mescolarsi con le fonti d’ispirazione
e con gli esperimenti creativi perché come spiega Rick Moody la sua
vita e la sua letteratura “sono scritte in fiotti, più come
epilessia che come una narrazione”. La descrizione, da sola,
basterebbe a riconoscere all’istante Rick Moody che poi, nel corso
dell’intervista, è abbastanza prodigo di suggerimenti utili a
sviscerarne l’imperscrutabile identità. Dall’inizio alla fine,
le considerazioni sono molto empiriche, anche se lasciano intravedere
parecchio del suo travaglio: quando comincia un romanzo, quello che
ha è “qualche personaggio, qualche immagine e molte speranze che
venga fuori qualcosa di buono”. Se questa è più o meno la linea
da cui per tutti comincia la maratona, già alla prima curva Rick
Moody impone un’accelerazione, che evidenzia anche uno dei tratti
salienti della sua “arte della narrativa”: “Credo sia
necessario spingere i personaggi in situazioni drammatiche dove i
conflitti che segnano la loro vita si fanno più evidenti che mai”.
Non è difficile rintracciare questa tensione nei suoi romanzi, Rosso
americano su
tutti, resta il fatto che l’ambizione dichiarata di ogni sforzo è
quella di arrivare infine a “un fallimento migliore” e questo, se
non altro, lo rende credibile, anche nelle sue capriole più
criptiche. Lo si intuisce anche dall’understatement del titolo, del
resto decisamente appropriato: Col
pianoforte ero un disastro
riassume in poche parole l’intenso rapporto di Rick Moody con la
musica (“Mi ha insegnato gran parte di quello che so sulla prosa,
sul suono che la prosa dovrebbe avere”), poi celebrato nel
dettaglio con Musica
celestiale, e
qui invece declinato con un breve elenco di amatissime rock’n’roll
band, “i primissimi Yo La Tengo, i Db’s, gli Individuals, i
Golden Palominos”. Non si trovano in tutti gli scaffali.
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