La sincerità che filtra dalle pagine di Mark Oliver Everett non
si trova spesso nelle testimonianze autobiografiche, in particolare
quelle di artisti e/o musicisti che arrivano alla scrittura come
ultima chance. Con il nome ridotto in E, Mark Oliver Everett guida da
anni uno degli ensemble più creativi ed eccentrici della storia
recente del rock'n'roll, gli Eels, e questo potrebbe già essere
sufficiente a giustificare il diario delle difficoltà, della fatica
e delle incomprensioni necessarie a mantenere accesa una scintilla,
un barlume d'idea. Una delle prime confessioni, esplicita, non lascia
dubbi in questo campo: “Quando sei un ragazzino e guardi il tuo
gruppo preferito in televisione, ti sembra che sia soltanto
divertimento. Entusiasmo. Ma poi scopri che, in realtà, per farlo e
per provare a farlo bene, se ti importa sul serio del risultato
finale, devi svolgere un lavoro estremamente duro. Reggere uno stile
di vita stressante. Non è per tutti. Devi essere completamente
votato alla missione e disposto a rinunciare a ogni tipo di vita
reale. Perché a nessuno fregherà mai della tua musica come a te, e
dovrai combattere tutti i giorni. Una guerra dura, solitaria. E per
me la guerra non finisce mai”. Anche se la scrittura è schematica,
collezionata in frasi brevi e spicciole (anche meccaniche) e senza
alcuna pretesa stilistica, E riesce a coinvolgere proprio per quella
capacità di mettersi in gioco, di mostrarsi, di spogliarsi che è la
premessa fondamentale dell'esistenza di ogni singolo artista. Le
guerre che ha dovuto combattere sono tante: E passa in rassegna i
drammi della sua adolescenza, le ferite aperte dai lutti famigliari
(il padre che gli muore tra le braccia, il suicidio della sorella) e
poi l'ostinazione e quindi le sofferenza nell'assiduità dei
tentativi di esprimersi, e vivere, attraverso la musica e gli Eels,
in sintesi quello che chiama “lo strano universo parallelo della
mia esistenza: nasconditi dentro te stesso nella vita reale,
altrimenti riceverai soltanto offese e umiliazioni, ma sali sul palco
ed esibisciti con passione e sentimento, figlio di puttana”. Il
collegamento con gli eroi dell'adolescenza, omaggiati ancora anche
nel recente (e bellissimo) show riportato in Royal Albert Hall
riprende quello spontaneo processo di identificazione da una
prospettiva più matura, come già raccontava lo stesso E: “John
Lennon ed Elvis Presley mi piacciono un sacco perché erano uomini
insicuri. E per me è proprio quell'insicurezza a renderli artisti
del tutto umani. Potevano anche cantare da dio, ma ti lasciavano
sempre l'impressione di essere reali, umani. Mettete su un qualsiasi
disco di Elvis, persino uno dei peggiori. Anzi, soprattutto uno di
quelli peggiori, e sentirete la sua vulnerabilità trasudare
dai solchi di quel disco”. Il resto del tempo va e viene ed E ha
trovato una sorta di compromesso con i suoi demoni e con le sviste
dell'esistenza, concludendo le sciocchezze che i nipotini
dovrebbero sapere con una postilla molto semplice: “Ho imparato
ad apprezzare i tiri a effetto che la vita mi lancia contro, e voglio
provare a fidarmi di quest'ultimo colpo. Esco e vado in una sala da
biliardo per farmi una partita e bermi una birra con il gruppo”. Di
solito, funziona: curioso, divergente, atipico, proprio come gli
Eels.
Nessun commento:
Posta un commento