Anche
se risale ormai a una ventina di anni fa, Beati
come rane su una foglia di ninfea potrebbe
essere stato scritto ieri o oggi: la crisi economica, le fluttuazioni
degli indici, gli intrecci tra informazioni e emozioni determinano i
tempi, i linguaggi, le visioni di un mondo instabile e ipersensibile
in cui “tutti recitano. Siamo noi a pensare che si realtà”. E’
una cacofonia che Tom Robbins sviluppa in un vortice psichedelico, ma
non è surreale Beati
come rane su una foglia di ninfea,
è bizzarro il modo in cui viviamo, che rimane ostaggio delle paure
che alimentano “il caos controllato dei mercati finanziari, e
quello assai meno prevedibile, delle strade”. Premesso Tom Robbins
è anche profetico quando scrive che “ci saranno altri giorni,
altri catastrofi, forse in un futuro quanto mai prossimo”, seguire
le peripezie di Gwendalyn Mati, la volubile protagonista di Beati
come rane su una foglia di ninfea vuol
dire leggere attraverso la filigrana dei nostri tempi, schivando il
riflesso dei cicli economici a cui affida la fortuna. Essendo una
broker, con il sogno di pagarsi tutta la sua Porsche, l’illusione
dei mercati azionari, una roulette dove vincono sempre i soliti,
diventa il bersaglio dello sberleffo di Tom Robbins che non ci mette
molto a spiegare cosa sta succedendo, a lei così come a tutti noi:
“Ahimé, il denaro se ne sta andando. Sta lasciando l’America con
tutta la velocità che le sue tozze gambe gli consentono. L’America
che tanto lo amava. Ha già abbandonato i pigri e gli stupidi e ora
sta per lasciare te”. Va da sé, poi, che Beati
come rane su una foglia di ninfea si
evolve seguendo vie misteriose e connessioni tutte da decifrare
perché Tom Robbins è irriverente, sprezzante e caleidoscopico. Per
quanto caotico, comunque, in Beati
come rane su una foglia di ninfea emerge
sempre un tono molto lucido e altrettanto polemico nei confronti
dell’american
dream e
della natura stessa dell’America: “Per la verità l’America è
sempre stata multiculturale, ma fino a tempi piuttosto recenti la
nazione era un crogiolo simbolico in cui vari popoli venivano
metaforicamente fusi per mescolarsi in una lega ricca, ed era quella
fusione di talenti, filosofie, attributi e inclinazioni, rinnovabili
e adattabili, a dare agli Stati Uniti il loro vigore e il loro
sapore. Al giorno d’oggi, invece, sembra che pochi immigrati siano
inclini ad assimilarsi. Portano con sé le loro culture natie,
praticamente intatte, e a quelle si aggrappano, rifiutando perfino di
imparare a parlare inglese e irritandosi quando le istituzioni
sociali della loro patria adottiva non si rivolgono loro nelle lingue
d’origine. Il che li tiene fuori dalla forza lavoro, naturalmente,
e in uno stato di eterno vittimismo; lo stato egoistico di chi non fa
che commiserarsi, insidiosamente sfruttato dai sinistroidi per i loro
personali fini politici. Così, invece di un brodo denso e
sostanzioso, l’America è divenuta una melma di piccoli grumi
separati di sostanze indigeste”. Molto acuto, molto brillante,
molto Tom Robbins.
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