Disturbati,
malati, combattuti, diseredati, disperati i personaggi di Canto
della neve silenziosa non
sentono e non vedono più niente, anzi “il nulla e basta”. Folli,
jazzisti, animali notturni, un tiro di dadi, la fugacità di incontri
che non si trasformano in legami perché non ne hanno il tempo e di
rapporti che si consumano perché ne hanno avuto troppo. Tutti
soffrono “la buia notte dell’anima” e sono invischiati nella
fitta rete di New York: i racconti di Canto
della neve silenziosa sono
i cantos di
Hubert Selby Jr. ed è quell’umanità a formare la linea della sua
scrittura, come se fosse una sorta di anfitrione dei bassifondi, un
geografo delle backstreets. Come il protagonista di Pubertà,
“qualcosa dentro di lui esigeva che la strada, gli edifici, la
gente fossero diversi, e invece erano gli stessi, solo che lui non vi
s’identificava più. Le impronte, le tracce che lui aveva lasciato
in quelle strade tutte le migliaia di volte che l’aveva percorse
erano scomparse, non gli sembravano più strade eppure lui continuava
a percorrerle cercando evidentemente qualcosa senza avere la minima
idea di cosa potesse essere, senza essere neppure sicuro se andava
cercando qualcosa oppure in realtà cercava solo di fuggire”. E’
naturale e insieme logico che tragga ispirazione dalla metropolitana
perché c’è movimento, linguaggio, volti, azione e lo stesso vale
per lo spazio magico del cinema. Entrambi i luoghi, ricorrenti
nel Canto
della neve silenziosa portano
nella direzione ostinata di Hubert Selby Jr., nell’oscurità e
verso il basso dove scava e recupera la materia prima da plasmare “e
poi, quando mi metto a scrivere, cerco e trovo la parola perfetta che
descriverà perfettamente qualsiasi cosa io senta, veda o ascolti.
Dunque, è un genere di cosa con forti caratteristiche visive. Voglio
dire che vedo tutto molto chiaramente”. Se il linguaggio è sempre
aspro, gergale, sanguinante, sono le immagini, “immagini che
aiutano a passare i giorni” la vera risposta di Huberty Selby Jr.
perché vuole portare il lettore più a vedere, che a leggere, a
vivere un’esperienza sensoriale che lo porterà fuori dalla pagina
bianca, piuttosto che dentro. Sembra un paradosso, ma è proprio
così: funziona in tutti i racconti, diventa evidente in Canto
della neve silenziosa,
l’ultimo capitolo che offre anche il titolo alla raccolta. Alla
fine la “neve silenziosa” è la sola, piccola consolazione che
prende forma, a tempo ormai scaduto, quando Harry, l’alter ego
metropolitano di Hubert Selby Jr. per un istante sembra intuire un
senso della vita: “Si rese conto che sorrideva nell’ascoltare le
loro voci e ch’era invaso dal calore della felicità. Non era la
gioia di qualche attimo prima ma una felicità che non provava da
quelli che sembravano moltissimi anni, anche se qualcosa gli diceva
che si trattava poi solo di mesi; una felicità che aveva vissuto a
lungo, una felicità che credeva finita per sempre”. E’
l’istantanea di un momento: l’eco della città è muto, il dono
migliore è il silenzio di una pagina bianca.
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