Tropico del Capricorno è un flusso inesorabile, un fiume di idee travolgente, rivelatorio e per niente autoindulgente, a partire dal suo memorabile incipit: “Una volta mollata l’anima, tutto segue con assoluta certezza, anche nel pieno del caos. Dal principio non fui mai altro che caos: un fluido che mi avviluppava, e io vi respiravo per branchie. Nei substrati, dove la luna brillava ferma e opaca, era liscio e fecondo; sopra era frastuono e discordanza. In tutte le cose io vedevo subito l’opposto, la contraddizione, e fra il reale e l’irreale, il paradosso. Ero io il peggior nemico di me stesso”. Come già in Tropico del Cancro, perché in realtà sono due metà dello stesso libro, Tropico del Capricorno permette a Henry Miller di vedere con chiarezza, guardando dalla distanza e in prospettiva, esiliato a Parigi e capace di distinguere con maggior sicurezza le interruzioni dell’arte, tutto quello che succede nel frattempo, ovvero la vita. Nonostante l’appariscente celebrazione delle rocambolesche avventure nella Ville Lumière e la voluttuosità della sua scrittura il tono è sempre coerente perché, come scrive all’inizio dell’Interludio, “confusione è parola inventata per indicare un ordine che non si capisce”. Nel suo personalissimo disordine, che d’altra parte ha parecchie ragioni d’essere, Henry Miller apre molte porte della percezione: riesce a far notare come “gli uomini son soli e senza comunicazione fra di loro perché tutte le loro invenzioni parlano solo di morte”, così come non concede nulla di glorioso all’arte perché è “l’insoddisfazione che ti porta da un parola all’altra, da una creazione all’altra, è solo una protesta contro la futilità del rinvio. Più ti desti, in quanto microbo artistico, meno desiderio hai di far qualcosa”. Duro ed esigente con se stesso, “sintomatico” come ebbe a definirlo Geroge Orwell, Henry Miller lo è altrettanto con la sua origine, l’America, quando la vede all’orizzonte del suo rientro e la identifica, “giusto o no” con New York: “Questa è l’America, bufali o non bufali, America la ruota smerigliata della speranza e della disillusione. Tutto quello che ha contribuito a fare l’America ha fatto anche lei: ossa, sangue, muscoli, occhi, passo, ritmo; portamento; sicurezza; faccia tosta e budella vuote”. Eloquente, eccessivo, geniale e nello stesso tempo puntuale e preciso Tropico del Capricorno è e rimane un’esperienza dall’inizio alla coda finale dove Henry Miller si congeda a modo suo, una volta tornato nelle strade di Broadway: “Sino ad oggi ho viaggiato in direzione opposta al sole; d’ora in poi viaggerò in due sensi, come sole e come luna. D’ora in poi assumo due sessi, due emisferi, due cieli, due serie di tutto. D’ora in poi avrò doppia articolazione, doppio sesso. tutto quel che accade accadrà due volte. Sarò un ospite di questa terra, parteciperò delle sue benedizioni, porterò via i suoi doni. Non servirò né mi farò servire. Cercherò il fine in me”. E’ l’unico obbligo che tocca allo scrittore, il suo lavoro.
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