L’apparente suicidio di Dorrie Burke non convince nemmeno un po’ John Blake, un investigatore privato diventato impiegato ai corsi di scrittura creativa della Columbia, lavoro certo meno problemativo. L’istinto del segugio non lo può spegnere nemmeno una scrivania piena di scartoffie e infatti John Blake, convinto che il suicidio sia un omicidio, si lancia a testa bassa nei gironi infernali della pornografia e della città (che è sempre New York), a caccia di colpevoli e innocenti. Sono già una sorpresa, in tempi di grand guignol e macellerie varie, le atmosfere chandleriane e l’ombrosa ambiguità con cui vengono introdotti questi “canti dell’innocenza”. Lo stesso titolo, e non servirà arrivare al finale per capirlo, contiene un raffinato rebus attorno al quale ruotano un grande loser (già investigatore privato e protagonista esclusivo del romanzo, ovvero John Blake), un’investigatrice (già ballerina), un cadavere (già massaggiatrice e già studente di corso di scrittura creativa) perché “tutti siamo stati qualcosa che non siamo più”. John Blake è il più perdente di tutti e si sente circondato in una New York che da una parte mette in risalto la sua natura multietnica, e dall’altra, nei rifugi (le gallerie, le rocce al Central Park, gli angoli più oscuri) che si cerca il protagonista è primitiva e fuori dal tempo. Accerchiato dalla polizia, inseguito dai feroci killer di Ardo (un personaggio che sembra ispirato a Kaiser Souze, il più pericoloso e sanguinario dei “soliti sospetti”), tradito dal suo stesso passato, John Blake confessa la sua condizione: “Mi sentivo come l’ultimo pedone sulla scacchiera, torri, cavalli e alfieri che si avvicinano da ogni lato. Mi spostavo poco a poco verso il bordo e non ce l’avrei fatta”. La trappola ha cominciato a funzionare il giorno in cui non ha voluto credere al suicidio di Dorrie Burke e convinto, a dispetto di tutti, che la sua amica è stata ammazzata, si lancia in una battaglia persa fin dall’inizio. John Blake avrebbe dovuto riflettere sul fatto che, come diceva qualcuno, forse il suicidio è solo una forma più raffinata di omicidio o meglio ancora sull’idea, quella di Ernst Jünger, che il suicidio è un indizio del fatto che esistono cose peggiori della morte. E’ proprio così, e la sua crociata si rivela, sconfitta dopo sconfitta, e cadavere dopo cadavere, una battaglia contro i mulini a vento e un’immersione non proprio salutare nel sottobosco della prostituzione e della pornografia. Molto altro non si può rivelare, a scanso di equivoci (e per salvaguardare il sorprendente finale, davvero degno di un grande romanzo noir), anche perché Richard Aleas lascia molto spazio al lettore, concedendogli ampi spazi bianchi, tra una riga e l’altra, nei tratti dei personaggi, persino nello svolgersi della storia. Dove è preciso, e senza alcun margine di errore, è nel descrivere l’agra vita del private eye, ritratta alla perfezione usando la voce dello stesso John Blake. Una definizione epocale: “E’ così. Lavori come un bastardo per giorni e giorni e niente ha senso. Sei perso, sei confuso, non hai risposte e stai buttando via i soldi del tuo cliente. Sei un impostore, lo sei sempre stato, e nessuno sano di mente ti assumerebbe neanche per trovare Times Square su una cartina o fare due più due. Poi un giorno ti ricordi qualcosa. O qualcuno ti dice qualcosa. E d’un tratto tutto quello che non aveva senso ora ce l’ha. Il fatto è questo: nove volte su dieci, vorresti che non fosse così. Vorresti essere di nuovo un impostore, perché le cose che la gente ci assume per scoprire sono le più abiette, fottute cose al mondo”. Un grande romanzo, e non solo noir.
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