Anche se i paesaggi sono gli stessi, la Louisiana, New Orleans, il Sud degli Stati Uniti, siamo molto distanti dalla saga di Dave Robicheaux (e Clete Purcel). L’ambiente è comunque determinante già con Luce d’inverno, dove il protagonista “è giunto a credere che l’accettazione di un angolo oscuro nell’anima e il rifiuto di parlarne con gli altri siano la massima consolazione che un uomo possa ottenere, e per qualche strana ragione quel pensiero sembra dargli un po’ di pace”. Quella pausa esistenziale, favorita dal momento e dal territorio innevato, è turbata dall’arrivo di intrusi che spezzano un fragile equilibrio. Una trama che si ritrova, in altre condizioni e con un diverso clima, ma con la stessa tensione, in La stagione del rimpianto, perché i racconti di Gesù dell’uragano sono agganciati tra loro da connessioni più o meno evidenti, come se avessero le stesse radici ma fossero cresciuti in modo indipendente. Succede con le disavventure della rock’n’roll band in La notte in cui Johnny Ace morì, con Elvis (ovvero il Greaser) e il colonnello Parker sullo sfondo, e per i jazzisti in Gesù dell’uragano, un racconto brevissimo che concentra tutte le brutture emerse con il disastro di Katrina, con New Orleans diventata ormai un ricordo: “Ecco com’era all’epoca. Ti svegliavi al mattino con il profumo delle gardenie, l’odore elettrico del tram, del caffè di cicoria e delle pietre ricoperte di licheni verdi. La luce era sempre filtrata dagli alberi, quindi non era mai pesante, e i fiori sbocciavano tutto l’anno. New Orleans era una poesia, amici miei, una melodia nel cuore che non finiva mai”. Nei cupi giorni dell’uragano, con l’acqua putrida arrivata alla gola, Chuck e Miles tornano a pensare al collega musicista Tony, ormai lontano, con un solo rimpianto: “Nessuno si è degnato di spiegare perché nessuno è venuto a prenderci”. Non sono gli unici alla deriva, che è cominciata almeno mezzo secolo prima, così come si intravede nella vita (durissima) dei personaggi di Gente d’acqua, quasi un’introduzione a Texas City, 1947, una storia straziante, ma a suo modo un capolavoro nel mostrare i tratti della disperazione, se non oltre. Subito dopo Foschia, nel seguire Lisa e Tookie lungo le tortuose dipendenze (alcol e eroina) aggiunge all’elenco dei loser convenuti, reduci e veterani dalla seconda guerra mondiale all’Iraq, una famiglia allargata (e numerosissima) con un bagaglio troppo pesante da condividere. La loro presenza dipende dalla naturale spontaneità di James Lee Burke ad annodare gli eventi storici alla fiction. Si nota nella filigrana nell’essenza di Il molestatore: l’intrico tra boxe, mafia, e un parco cittadino, è lo scenario dei principali snodi dell’infanzia e dell’adolescenza dove, infine, bisogna “affrontare forze che certe volte sono semplicemente troppo grandi per noi”. Il racconto inizia il trittico dedicato a Nick e Charlie: i due ragazzi saranno protagonisti anche in Il rogo della bandiera e, nello contro con il coetaneo Vernon Dunlop, misureranno la distanza dal mondo degli adulti e, di nuovo, in Perché Bugsy Siegel era amico mio. La coppia di giovani amici si ritrova nella cornice di un’America che non c’è più: quella dei lampioni agli angoli delle strade, dei giorni e delle notti che ruotavano dentro i confini di “un quartiere dove ogni alba si infrangeva all’orizzonte come una testimonianza della disfatta personale”. Il paradosso sottinteso (ma neanche tanto) da Perché Bugsy Siegel era amico mio è che soltanto con l’appoggio di un fuorilegge può arrivare un atto di giustizia, ma sono Nick e Charlie, proprio come novelli Dave Robicheaux e Clete Purcel, ad allungare un filo di speranza in un’America spietata, desolata, abbandonata a se stessa.
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