In questa selezione di saggi, George Saunders tocca temi d’attualità scomodi e rilevanti, l’inizio tragico del ventunesimo secolo su tutti, con tratti ironici e sarcastici che non concedono nulla alla retorica e hanno un gusto per il ritmo frizzante e pop, che invita il lettore a sorridere, anche di fronte a situazioni drammatiche e ambigue. Comincia con la disanima della deformazione dell’opinione pubblica, attraverso subdoli metodi di impoverimento del linguaggio, in particolare dopo l’undici settembre e prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003, sostenendo che “a quel punto il nostro discorso nazionale era talmente degradato, il nostro lessico nazionale così impoverito, che eravamo dei bersagli facili”. Al contrario, George Saunders si scosta da concetti come “predominio” o “nazioni fluide” e convinto che “le rappresentazioni del mondo non sono mai il mondo vero e proprio” ama confrontarsi con la realtà, viaggiandoci dentro, ben sapendo che “il legame tra autenticità e piacere non è casuale”. Succede nei reportage da Dubai, con le pagine epiche in Nepal, ma più di tutto nella corrispondenza dal border tra Stati Uniti e Messico. La grande muraglia è un’abrasiva testimonianza delle differenze e delle distanze, dell’America, tra gli spazi fisici e mentali, con tutti i contrasti e le bellezze (“Il paesaggio, così sconfinato, così splendido, rivela le idee umane per quello che sono: invenzioni, proiezioni, approssimazioni, illusioni”) che spingono George Saunders a comprendere che il mondo “cambiava a seconda di cosa dicevi e di come lo dicevi. Limando le frasi che usavi per descriverlo modificavi l’inflessione della tua mente, che a sua volta modificava le tue percezioni”. Il passaggio successivo, immediato e senza soluzione di continuità, è che “migliorando la nostra prosa, discipliniamo la mente, affiniamo la logica e soprattutto scopriamo cosa pensiamo davvero. Ma questo esercizio richiede tempo, e ci obbliga a immergerci nei modelli passati di splendida sintesi”. Diventano necessarie le lezioni di letteratura che cominciano leggendo Donald Barthelme, Mark Twain (“Non c’è da stupirsi se poi la gente ha problemi a insegnare e apprezzare un romanzo complesso e imperfetto come Huck Finn, ma è ancora più urgente imparare a esaminare le storie con passione e metodo, se non altro per proteggerci da quelle false e manipolative che vengono messe in giro”) e Kurt Vonnegut (“C’è qualcosa di miracoloso nella lettura di un libro come Mattatoio n. 5, anche se nulla cambia, tranne quello che succede nella nostra testa. Quando finiamo di leggerlo ci sentiamo, sia pure per poco, in giusto rapporto con la verità, ricordiamo come stanno davvero le cose, riacquistiamo per un attimo la lucidità e la parte migliore di noi rifiorisce”) e poi si evolvono in pratici consigli di scrittura creativa. George Saunders immagina che “un racconto può essere inteso come una serie di piccole stazioni di servizio. L’obiettivo principale è far compiere al lettore un giro di pista; cioè farlo arrivare alla fine della storia. Qualsiasi altro piacere che una storia può offrire (tema, personaggi, morale edificante) dipende da questo”. Se, in estrema sintesi, lo schema è funzionale a comprendere i meccanismi della narrazione (nello specifico delle short story), George Saunders è ancora più esplicito quando ne deve decantare il valore: “Le storie migliori nascono da una misteriosa spinta verso la ricerca della verità, insita nel racconto che ha subito una revisione approfondita; sono complesse, spiazzanti, ambigue; tendono a rallentarci anziché a velocizzarci. Ci rendono più umili, ci fanno immedesimare con persone che non conosciamo, perché ci aiutano a immaginarle, e quando riusciamo a immaginarcele, perché la storia è raccontata bene, le vediamo sostanzialmente simili a noi”. L’assemblaggio eterogeneo di queste Cronache da un mondo troppo rumoroso non toglie nulla alla verve di George Saunders, convinto che “sorprendiamo noi stessi e creiamo qualcosa che è più grande di quanto avremmo mai potuto immaginare prima di metterci all’opera”. L’invenzione dell’arte, a quel punto, è anche relativa: c’è qualcosa di più, perché “resistendo all’impulso di sminuire per poi distruggere, noi teniamo in vita, anche solo per qualche altro secondo, la possibilità di una trasformazione”. Pregevole.
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