Nei memoir delle rock’n’roll star c’è sempre un fragile equilibrio tra la volontà di aprire scatole piene di ricordi e il timore delle rivelazioni che ne possono uscire. Il più delle volte, i racconti si barcamenano tra l’urgenza della confessione e le nebbie colorate della fiction, ma non è il caso di Let’s Go (So We Can Get Back) perché come dice subito Jeff Tweedy, a scanso di equivoci: “Non è un romanzo, quindi immagino che il mio unico compito sia dire la verità”. L’intenzione è nobile, le precauzioni sono obbligatorie: Jeff Tweedy è una personalità tormentata dai sensi di colpa e da una fragilità, che lui chiama “vulnerabilità”, che ha nascosto a più riprese dietro un sipario di alcol e droghe. L’onestà con cui racconta le fasi complicatissime della tossicodipendenza, una parte consistente di Let’s Go (So We Can Get Back), è senza dubbio una componente meritevole, soprattutto nella lucidità con cui Jeff Tweedy distingue il dolore e la malattia dai processi creativi: “Credo, infatti, che gli artisti creino nonostante la sofferenza, non grazie alla sofferenza. Non me la bevo proprio. Tutti soffrono, a modo loro, e credo che tutti abbiano la capacità di creare; ma penso che trovare nell’arte uno sfogo per il disagio o un modo di reagire alle avversità sia solo questione di fortuna”. Un po’ di casualità va messa in conto anche nell’addentrarsi in Let’s Go (So We Can Get Back): se all’inizio è la passione istintiva per la musica, con London Calling dei Clash e Born To Run di Springsteen a fare da detonatori, poi partono le dinamiche della vita nelle rock’n’roll band, dove Jeff Tweedy si è concesso una certa disinvoltura nel trattare con gli altri, e qui sfilano i contrasti con Jay Farrar negli Uncle Tupelo e poi con Jay Bennett (e non solo) nella prima versione degli Wilco. Va detto che Jeff Tweedy non risparmia le testimonianze sulle pratiche fallimentari dell’industria discografica che attorno a Yankee Hotel Foxtrot ha consumato tutto il repertorio di banalità, errori e idiosincrasie, senza accorgersi di avere di fronte un album destinato a diventare un classico. La cronaca di quel momento (epocale, e non solo per i Wilco) è condizionata dalla natura fluttuante di Let’s Go (So We Can Get Back): alcuni passaggi sono particolarmente toccanti, qualche divagazione è inconsistente e si nota più di una ripetizione, soprattutto quando parla dei genitori, quasi a voler ribadire i contorni di un’identità sfuggenti. È evidente che Jeff Tweedy è molto più spontaneo, quando parla delle sue letture (James Joyce, William Gass, Emily Dickinson, Henry Miller), del songwriting (“Credo che quasi tutti gli autori di canzoni, tranne forse quelli più originali e talentuosi, ci mettano un po’ a trovare la loro voce. In quel caso, la cosa migliore è fingere. Continuare a provarci, finché non ci si riesce per davvero. Ci lavori ancora e ancora, e se tutto va bene alla fine ce la fai”), del lavoro quotidiano (“Cerco di creare qualcosa di nuovo ogni giorno, qualcosa che non esisteva quando mi sono svegliato. Non deve essere lungo o perfetto o gradevole. Basta che sia qualcosa”) e della creatività (“La gente cerca ispirazione e speranza, e se avete una o l’altra dove condividerla. Non per la gloria personale, ma perché è la cosa migliore da fare. Quello che create non è soltanto vostro”). Fuori da questi binari Jeff Tweedy risulta un po’ impacciato persino nel confronto con moglie e figli e, in questo, è probabilmente, sincero anche nella ricostruzione offerta in Let’s Go (So We Can Get Back), a maggior ragione quando, alla fine, deve svelare il suo segreto: “Devi accontentarti del piacere che provi nel farla, la musica, e non puntare sul fatto che ti renda ricco, o che serva a pagare le bollette. Se ti fa stare bene, e quando ti svegli al mattino hai voglia di tornare in studio e creare qualcosa di nuovo, be’, non c’è un cazzo da fare, quello nessuno te lo può togliere”. È l’unica ammissione che conta, ma ci vuole un bel po’ per arrivarci.
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