Se il blues si forma nella leggenda tanto vale trattarlo da leggenda, con la certezza che un romanzo merita più di una biografia. La logica di Edmond G. Addeo e Richard M. Garvin magari non è formalmente corretta, ma calza alla perfezione al personaggio, visto che Leadbelly “amava a tal punto le proprie favolette che di rado le escludeva dalle proprie rievocazioni a uso e consumo degli studiosi del folklore, che le riportavano quasi sempre come se fossero vangelo”. La scelta di una versione romanzata (comunque fondata su una solida e validissima ricerca documentale) contribuisce a restituire per intero la tormentata umanità di Leadbelly, che “preferiva il colore all’esattezza”, e viene riscoperto così in tutti i dettagli di un’esistenza dolorosa e controversa, dove il fatto di essere negro è stata una condanna che gli ha pesato fino alla morte. La sofferenza che si è portato dietro Leadbelly è un peso importante che lo ha attanagliato per tutta la vita ed è uno straziante carico di dolore che emerge in un ritratto completo e ricchissimo, senza gli obblighi della biografia e dei riscontri storiografici. È il motivo per cui la ricostruzione di Edmond G. Addeo e Richard M. Garvin resterà sempre attuale, pur essendo stata scritta ormai più di cinquant’anni fa. Per Leadbelly l’incontro con il blues arriva prestissimo, all’inizio del ventesimo secolo, nella spiegazione di Sycamore Slim, un musicista conosciuto nei contorni di uno degli episodi più crudeli della sua storia: “È blues, Huddie. Non l’hai mai sentita perché non t’è capitato. Sai, qui in città i neri se la passano brutta. Ci sono bambini per strada, e con un papà che è andato chissà dove a lavorare nei campi. La raccolta del cotone ha bisogno di neri che si chinano e staccano il cotone e fanno le balle. E dopo una giornata hai le mani piagate e la schiena tutta incriccata. Poi torni a casa o dove stai e ti siedi e se hai fortuna trovi un goccio di whisky e una donna che ti fa da mangiare e pensi a cosa farai domani. La stessa cosa tutti i giorni. E ti cala addosso il blues”. Qualche anno più tardi, sarà Blind Lemon Jefferson a mostrargli il senso delle parole nel blues, oltre a guidarlo verso la chitarra a dodici corde, che resterà il suo marchio di fabbrica. La lezione di Blind Lemon Jefferson lo introduce a “storie strazianti di sofferenze, malattie, siccità, storie di donne nei campi le cui dita sanguinanti macchiavano il cotone, di fruste messe in mano ai sadici e di bambini che tutti i giorni morivano per i morsi dei ratti, immagini di ossa che spuntavano dalla carne e occhi mancanti, di vecchi storpi e neonati morti e madri che vendevano il proprio latte”. Questo è il blues, e poi quello che Leadbelly sperimenta sulla propria pelle frequentando le peggiori galere americane, essendo piuttosto lesto nell’estrarre coltelli e pistole: da Huntsville in Texas ad Angola, in Loosiana (come è chiamata la Louisiana) dove viene registrato da John e Alan Lomax mentre suona per i suoi compagni di sventura, perché “certe volte quando ascoltano il blues dimenticano i guai. Non so perché, ma è così”. Se la parte più dura dovrebbe essere quella della prigionia (ed eccome se lo è: a rischio di apparire truculenti, Edmond G. Addeo e Richard M. Garvin non risparmiano alcun particolare) quella più lacerante è nell’incontro con lo show business e i suoi meccanismi, e qui il romanzo arriva dove nessuna analisi critica si sarebbe potuta permettere. L’incontro con i Lomax, tra il 1933 e il 1934, lo conduce a Philadelphia, Washington, New York e poi a Hollywood e a Parigi, ma nonostante tutto Leadbelly è sempre un corpo estraneo. Troppo grosso e forte, troppo nero e ingombrante da passare inosservato è una figura imponente e scomoda, anche al cospetto di ammiratori e sostenitori dichiarati come Woody Guthrie e Pete Seeger. Alla loro presenza viene riportata una rissa con un altro bluesman, Josh White, ma è la combattuta identità dell’artista e dell’uomo che esplode, soprattutto a New York, e ancora di più nelle strade di Harlem. La storia è brutale, senza censure e senza correzioni, come è la realtà, puro e semplice blues. Il linguaggio è quello che è e non c’è niente di politically correct: i negri sono negri, gli sbirri sono sbirri, la violenza è la violenza, l’America è l’America e il blues è il blues.
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