How
Can a Poor Man Stand Such Times and Live? chiede Blind Alfred
Reed, tra i songwriter capostipiti della cultura hillbilly. La
domanda nel titolo della sua canzone più famosa non è per niente
retorica. I limiti geografici, la campagna, le montagne, la natura
stessa degli Appalachi, sono solo la cornice di quel “mondo
interrotto”, come lo definisce J. D. Vance, la cui stessa esistenza
è da una parte uno schiaffo all’autorità, e dall'altra una
miscela esplosiva di analfabetismo, alcol, droga, violenza domestica
(e non) e miserie assortite. J. D. Vance nasce e appartiene a “una
banda sgangherata di hillbilly che cercavano la propria strada” e
la sua Elegia americana è un tentativo di tenere a bada “i
mostri” in una forma strana, un ibrido tra saggio e autobiografia.
Non una testimonianza facile, segnata dalle brucianti e ricorrenti
ferite psicologiche: cresciuto dai nonni, J. D. Vance viene da una
famiglia a “porte girevoli” sul lato paterno, con una madre
tossicodipendente e, più di tutto, in un contesto generale dove “il
degrado può anche sfuggire ai residenti perché è un processo
graduale: assomiglia più a un’erosione che a uno smottamento”.
La condizione rurale, già aspra, è attraversata dal processo
storico di deindustrializzazione e delle conseguente migrazioni che
rivelano come l’etica del “duro lavoro” non sia più
sufficiente (se mai lo è stata) a inseguire un’idea di successo e
di felicità. La povertà di un’America sconosciuta e nascosta
diventa via via più imbarazzante perché come scrive J. D. Vance
“non c’era nulla che facesse da collante tra noi e il tessuto
sociale americano. Ci sentivamo intrappolati in due guerre
apparentemente senza speranza, in cui una quota esagerata di
combattenti veniva da nostro quartiere, e in una economia che non era
in grado di mantenere la promessa più elementare del sogno
americano: uno stipendio sicuro”. Le vicende personali di padri e
madri confusi (se non pericolosi) e in genere “sopravvissuti”
intersecano la ricostruzione degli aspetti sociali ed economici che
distanziano la realtà hillbilly dal mito e dalle mistificazioni del
cosiddetto sogno americano perché “le famiglie della classe
operaia americana vivono un livello di instabilità che non ha uguali
al mondo”. Le forme di comunicazione claudicanti, nel migliore dei
casi, spesso grette, ruvide, con un vocabolario ridotto e riferimenti
culturali legati solo alle canzoni (Hank Williams, Johnny Cash,
Dwight Yoakam, Lynyrd Skynyrd), l’uso persistente della violenza,
verbale e non, ricorda a J. D. Vance che “a volte essere un
hillbilly voleva dire non capire la differenza tra amore e guerra”.
Lo scontro con l’idea dell’appartenenza a una comunità, figlia
di “una cultura che promuove sempre più il decadimento sociale
anziché contrastarlo”, i fantasmi dell’infanzia che ritornano,
hanno portato J. D. Vance a sforzarsi per trovare un’educazione
migliore, fino a laurearsi a Yale e a diventare avvocato. Certo che
se un hillbilly per trovare un po’ di ordine deve sperare (e
arruolarsi, come ha fatto J. D. Vance) nei marines, c’è una bella
fetta della torta americana che non è poi così invitante. L’idea
del fallimento serpeggia per tutta l’Elegia americana, che
in realtà è un tentativo di rammendare un’apologia hillbilly, a
proprio uso e consumo, dato che “la realtà si può tenere a bada
sono fino a un certo punto”. Si capisce, come dice J. D. Vance, che
“è la tregua che ho firmato con me stesso, e per ora funziona”,
anche se i limiti rimangono in evidenza. Il tono delle parti
confessionali e introspettive cozza con le analisi sociologiche ed
economiche. Le forme non si amalgamano, la storia resta al bivio,
anche se alcuni aspetti dell’Elegia americana hanno senza
dubbio il merito di guardare dentro un’America debole, prostrata,
diffidente e (persino) pericolosa per i suoi figli.
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