Bartleby è
una figura scomoda ed enigmatica, ma non così distante. La sua
collocazione rispetto alla “condizione assoluta delle cose
presenti”, e per estensione al ritmo convulso e perfido di Wall
Street, non ha soltanto un valore simbolico. La presenza, perché
“una sua qualità primaria consisteva in questo: ch’egli era
sempre là, primo al mattino, costantemente
durante il giorno, ed ultimo alla sera”, lo rivela un corpo
estraneo e insieme un segnale d’allarme vivente. La connotazione
del suo rifiuto a collaborare (reiterato, cortese, fermo) è stata
indagata e messa in discussione persino dallo stesso Melville, che
ricordava come Bartlebly sia “una creatura di preferenze, non di
assunti”. La precisazione sgombra il tavolo dello scrivano di molte
supposizioni perché è l’idea stessa di “preferenza” che è al
centro del racconto di Melville. Forse non sono le motivazioni, ma
l’opposizione in sé da considerare, visto che Bartleby rimane
abbarbicato alla sua decisione fino alle estreme conseguenze.
L’abilità di Melville è proprio quella individuata da Gianni
Celati che spiegava come “il gioco narrativo consiste anche nel far
cadere nel vuoto le nostre interpretazioni”. La forma della sua
disobbedienza che disorienta l’avvocato, e narratore, che l’ha
assunto nel ruolo di scrivano, è ancora di più un modello di
coerenza, che lo trasforma in un personaggio unico. Il contorno dei
personaggi secondari, Turkey, Nippers, Ginger Nut non fa altro che
risaltare “quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella
sua rispettabilità, incurabilmente perduta!”, sentenza che,
secondo Melville, segna il destino di Bartleby. E’ proprio così,
anche nella lettura di Gianni Celati: “Stando al racconto, Bartleby
ha piuttosto l’aria di qualcuno che non abbia niente da dire, a
parte quella frase meccanica in cui concentra la sua maniera
d’essere. Oppure si può pensare a una creatura della
rassegnazione, che ha eliminato ogni comportamento superfluo, ed è
tutta in quello che fa, non in quello che pensa”. L’idea di un
rifiuto senza offesa, non una presa di posizione, quasi una forma
passiva di autodifesa, eleva Bartleby in un dissidente totale,
pacifico e silenzioso. Un personaggio destinato a sollevare le
ipotesi più elaborate. George Perec chiamava “pazienza” la sua
resistenza, mentre Gilles Deleuze sosteneva che Bartleby è più il
frutto di “un divenire umano” piuttosto che letterario, il figlio
di una “vocazione schizofrenica: anche catatonico e anoressico
Bartleby non è il malato bensì il medico di un’America malata, il
medicine man”.
D’altra parte Lewis Mumford identificava in Bartleby lo stesso
Melville, ma alla fine a tutti gli effetti resta la trasposizione
letteraria, quella che Gianni Celati enunciava mirabilmente così:
“La potenza della scrittura non sta in questa o quella cosa da
dire, bensì nel poco o niente da dire, in una condizione in cui si
annulla il dovere di scrivere. Ogni dover scrivere e voler scrivere è
la patetica vittima delle proprie aspettative. La potenza della
scrittura sta nell’essere senza aspettative, nell’essere
rassegnazione e rinuncia al dover scrivere, possibilità di rimanere
sospesa soltanto come preferenza”.
Racconto perfetto, finale intaccabile, Bartleby
è un classico che ha ancora molto da dire, anche con una frase di
tre parole ripetuta allo sfinimento.
Nessun commento:
Posta un commento