Più
che cercare di immaginare le qualità oniriche degli androidi o le
intenzioni dei loro cacciatori, sarebbe utile un’ulteriore
riflessione sugli scenari creati e, in gran parte, anticipati da
Philip Dick. Dal deserto alla spazzatura e alle rovine metropolitane,
si tratta di un paesaggio stratificato ed estremo, popolato da una
varietà di esseri, da quelli senzienti e raziocinanti a quelli
limitati o “speciali”, dalle imitazioni meccaniche degli animali
domestici agli androidi in viaggio da e per il pianeta. Dentro questa
cornice, il denso tessuto della scrittura di Philip Dick è un’acuta
descrizione di una società crollata su se stessa, dove l’incognita
dell’organizzazione degli spazi urbani coincide con un contesto
autoritario e ossessivo. Non siamo molto lontani. Le leggi che
compongono il complicato ordine di San Francisco, un’architettura
frastagliata immersa nella “polvere radioattiva”, devono
controllare diversi livelli di coscienza, senza che i “modulatori
d’umore”, strumenti in grado di regolare la declinazione delle
emozioni, possano essere un granché d’aiuto. Gli androidi sono la
variabile imprevista che mette in risalto una condizione opprimente.
L’origine va cercata melle Predizioni
di Philip Dick, dove immaginava che alla fine del ventesimo secolo
“le prime colonie-bunker si insedieranno con successo sulla
Luna e su Marte. Con la manipolazione genetica verranno creati umani
paramutanti in grado di sopravvivere lontano dalla Terra o in
ambienti alieni”. Queste creature hanno la particolarità di
apparire come gli esseri umani ma “come ogni altra macchina, deve
funzionare al momento giusto”. Nella definizione di Philip Dick,
così come nella domanda contenuta dal titolo del romanzo si
moltiplicano i quesiti: gli androidi hanno un’anima? Cosa sognano?
E cosa sognano gli uomini e le donne? E i cacciatori di taglie? Rick
Deckard deve “ritirare” alcuni replicanti, ma, al di là dei suoi
scopi, perché? Quali allarmi stanno esprimendo? Gli embrioni delle
possibili risposte vanno cercate in Mutazioni
dove Philip Dick scriveva: “In alcuni dei miei racconti e romanzi,
ho parlato di androidi, robot o simulacri; il nome non ha importanza:
ciò a cui mi riferisco sono le costruzioni artificiali dall’aspetto
umano e, di solito, animate da qualche sinistro proposito.
Probabilmente, per me era scontato che se una di queste costruzioni,
un robot, per esempio, avesse avuto un scopo positivo, o quantomeno
decente, non avrebbe avuto bisogno di camuffarsi. Ormai, però,
quest’idea mi pare superata. Queste costruzioni non imitano gli
umani: per molti aspetti fondamentali, esse in realtà sono già
umane. Non stanno cercando di fregarci, per qualche scopo a noi
ignoto: seguono semplicemente i nostri stessi percorsi al fine di
superare problemi comuni”. Le condizioni sono mutate per tutti,
esseri umani, animali, replicanti, e nella visione di Philip Dick il
punto non è soltanto “l’androide organico” e la sua
collocazione, è l’insieme di tutte le forme di vita perché
“forse, in realtà, stiamo assistendo a una graduale fusione della
natura generale delle attività umane con le attività che noi umani
abbiamo costruito e di cui ci siamo circondati”. La caccia agli
androidi è la persecuzione dei ribelli, attingendo al fattore
dell’esperienza, s’inoltrano in una twilight zone dove
l’evoluzione della specie non è prevista. Quando gli androidi
aprono la porta a Rick Deckard, in una scena che è insieme simbolo e
svolta del romanzo, non è per ingenuità, ma perché
“l’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto,
prevedibilità”.
Su quella soglia, che delimita una sconfitta, s’incontrano
nell’espressione di “una qualità meccanica, riflessa”, che è
biunivoca. Nel mondo ipotizzato da Philip Dick, e in quello specifico
momento, il dilemma degli androidi fragili e titubanti, con il
cacciatore di taglie che li insegue cercando di rimuovere ogni
emozione per compiere una missione dalle motivazioni risibili, rivela
in fondo un dramma filosofico, che riguarda il senso stesso
dell’umanità, o di quello che ne resta.
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