Le
Note al caffé di Elliott Murphy rispecchiano la tradizione
degli appunti raccolti en passant, dai bistrot parigini alle osterie
venete, tutti luoghi che nei suoi tour ha conosciuto da vicino, tanto
è vero che si è lasciato New York alle spalle per trasferirsi in
via definitiva nella Ville Lumière. Nel passaggio, la sua identità
di raffinato songwriter si è evoluta verso altre forme di scrittura,
giornalismo e narrativa compresi nell’elenco che si sono ricavati
uno spazio tra una scorribanda e l’altra. La prima connotazione
delle Note al caffé deriva proprio dalle caratteristica
europee di questo diario di viaggio. Come tutti gli americani in
trasferta, o in esilio, prima di lui (soprattutto gli amatissimi
scrittori delle Lost e Beat Generation), Elliott Murphy adotta e
applica una prospettiva singolare, molto stimolante nella valutazione
delle distanze culturali. Per esempio, suggerisce un punto di vista
abbastanza curioso rispetto alla golden age del rock’n’roll
quando dice che “soltanto in America è esploso il fenomeno anni
sessanta, nel resto del mondo abbiamo avuto per due volte gli anni
cinquanta. E poi ci siamo svegliati direttamente negli anni settanta:
tutti portavano i pantaloni a zampa d’elefante e protestavano
contro la guerra e le bombe”. Si può discuterne, così succede con
la sua percezione delle differenze all’interno dei confini europei:
“Se la Francia è la patria del surrealismo, allora l’Italia è
in centro del caos e dell’anarchia sessuale, il principio di tutto.
Dove tutti, a parte me, conoscono le regole. Oppure dove tutti,
tranne me, sanno che non esistono regole”. Una logica che deve
parecchio alle ragazze avvistate e inseguite nelle vie di Treviso o
al fantasma di Hemingway al Caffè Florian di Venezia, che “di per
sé non è nient’altro che un atollo della fantasia che affiora
dalla laguna”. E’ difficile distinguere Elliott Murphy dai
personaggi che incrocia e sviluppa nelle Note al caffé: tra
schizzi, porzioni di fiction e di flusso di coscienza scorrono
l’inevitabile Jim Morrison a Parigi, una citazione di Sartre,
un’immagine di Napoleone e tutto un avvicendarsi di caratteri e
interpreti dal tono dylaniano, fonte sicura e primaria, e poi,
ancora, il cinema d’autore con John Ford, François Truffaut, Wim
Wenders, Sam Shepard e lo spettro di un secolo (il ventesimo) a cui
questa prosa appartiene in modo inequivocabile. Tra una bozza e
l’altra matura un presagio di quello che sarebbe venuto (non ci
voleva una grande immaginazione, in effetti), ma una serie di
istantanee non fa una storia, anche se Elliott Murphy è un
osservatore ispirato, capace di distinguere i nessi tra la
letteratura e il rock’n’roll (che rimane il suo primo lavoro)
sempre con una predisposizione romantica ed entusiasta che garantisce
alle sue Note al caffé una certa leggerezza e una sostanziale
qualità dello stile. Fedele alle sue origini naturali, Note al
caffé è frammentario, inconcludente, come una raccolta di
cartoline spedite da un viaggio con troppe destinazioni, senza una
meta definitiva, più l’idea di un libro, che un libro vero e
proprio.
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