La nota di
autoreferenzialità all’inizio è quella che determina l’andamento
di tutto il libro. Un costante guardarsi l’ombelico (e anche più
giù) mentre fuori succede ogni cosa, ma il contatto è sempre
evanescente, se non assente, a parte il forzato richiamo sulla
pagina. Ben Lerner (e/o il suo personaggio ipocondriaco) si divide
tra la diagnosi di un rischio cardiaco, la richiesta dell’amica
Alex di un aiuto per diventare madre e l’idea di concretizzare “un
diorama del futuro” o una rappresentazione né standard né lineare
dei movimenti del tempo, e della storia. Solo che, visto da vicino,
Nel mondo a venire è
un collage con parti di racconti, di poesie, di lezioni, di
recensioni ed identificabile persino “una serie di appunti per un
romanzo”. Ben Lerner è molto abile a tenere tutto insieme, ma la
prospettiva è falsata e Nel mondo a venire
manca là proprio dove vorrebbe essere: la narrazione porta i sintomi
di un romanzo senza esserlo. Entrare nel suo club esclusivo vuol dire
accettarlo, non esserne coinvolti, comprenderlo senza condividerlo, e
una prima ammissione di questa distanza è quando Ben Lerner scrive
che “quello che di norma sembrava l’unico mondo possibile
diventava un mondo fra tanti, e il suo significato instabile,
collocabile ovunque, anche se solo per un attimo”. Il tentativo per
quanto elaborato, pare maldestro: c’è questa coazione a ripetere
situazioni, percezioni, commenti. Più di una volta con la stessa,
identica frase. Alla fine, in buona sostanza, sono ancora le mille
luci di New York, questa volta viste dall’altra sponda dell’Hudson,
con Brooklyn diventata cool negli ultimi anni, senza quella patina
leggera e brillante che per una breve stagione aveva avuto pur senso
(e successo). Ben Lerner invece sovrappone un po’ troppo: “la
globalità del mondo in termini apocalittici” e le cronache dal
dentista, i ruoli e gli interpreti, i toni e i ritmi, le dimensioni e
le conclusioni, lo scrittore e il lettore. Il meccanismo, in sé, si
risolve in una sorta di diario con un’unica vocazione: non ho
niente da dire, ma lo dico benissimo. Soltanto la rievocazione
dell’esplosione dello shuttle Challenger
ha qualche sprazzo di lucidità, ma poi Ben Lerner, nel continuo
tentativo di importare tutto nella sua quotidianità, o in quella del
suo alter ego, lo riduce a una cornice molto ampia, riempita dai
ricordi infantili e dalle barzellette così come dalla prosopopea di
Ronald Reagan. Un bel discorso inzuppato di luoghi comuni può essere
sufficiente per un’orazione politica (eccome, se lo è stato). Per
un romanzo serve qualcosa di più e tra le righe Ben Lerner sembra
confessarlo quando dice che “più l’autore di affannava a
distinguersi dal narratore, più gli sembrava di essere diventato
identico a lui”. Nello stesso modo accosta la descrizione di pranzi
e cene alle chiacchiere e ai pettegolezzi sull’editoria e sul suo
futuro in conversazioni un po’ brille con un’atmosfera che non è
né fiction, né realtà, è soltanto finta ed evanescente. Ci deve
essere un limite tra l’ambizioso e il pretenzioso, almeno una
distinzione, una separazione. Si capisce dove vuole arrivare Ben
Lerner, soltanto che non ci arriva: Nel mondo
a venire resta lì, un esercizio di stile,
autoindulgente ed eseguito alla perfezione.
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