Sempre
più crudeli, più efferati nell’infliggere torture, mutilazioni,
umiliazioni, sofferenze. Tutti, senza distinzione: non c’è salvezza, non c’è
redenzione nell’atroce scia di sangue che Il cartello si
lascia alle spalle. E’ una vera e propria guerra, spietata e
insensata che, come tutte le guerre moderne dal ventesimo in secolo
in poi, non distingue tra soldati e civili, chiunque è un
bersaglio, anche se mascherati come vittima collaterale o qualsiasi
altro eufemismo venga usato. La vendetta è tutto, il potere della
morte è tutto e quello che resta è il deserto e città popolate da
fantasmi, con Ciudad Juárez in cima alla lista. Don Winslow spiega
molto bene come nasce la guerra per e contro il traffico di droga, la
condizione apocalittica del Messico moderno (né più né meno di
quello antico) e l’attinenza alla cronaca e alla realtà (Il
cartello è, de facto, un romanzo storico) colpisce, insieme
all’abilità di rendere intellegibili i modus operandi dei
cartelli, dei trafficanti, delle forze di polizia, dell’esercito,
delle agenzie federali degli Stati Uniti, degli agenti sotto
copertura, dei cambiamenti di ruolo e di strategia, delle
trasformazioni delle alleanze, delle tregue e degli scontri in
un’orgia di inaudita violenza. Senza fine e senza senso perché,
come si era già capito con Il potere del cane e come diventa
ridondante con Il cartello, puoi anche vincere una guerra, ed
essere il più potente, ma non sarai mai al sicuro. Art Keller non è
estraneo alla sete di morte, alla devozione ai meccanismi (senza
ritorno) della vendetta perché la guerra è in sé una vendetta, e
soltanto quello. Ha varcato il confine già con Il potere del
cane, mentre Il cartello porta lo porta un passo più in
là. Avrebbe voluto restare nel suo buen retiro, ad allevare le api,
ma sapeva che il passato, quel passato che non passa mai, l’avrebbe
richiamato. Teneva una pistola nascosta tra le arnie ed è così che
“Keller è diventato un blues, uno dei perdenti di Tom Waits, uno
dei santi di Kerouac, un eroe di Springsteen sotto le luci delle
autostrade americane e i neon dei locali. Un fuggiasco, un
bracciante, un vagabondo, un cowboy che, pur sapendo di essere
arrivato alla fine della prateria, continua a galoppare, perché non
c’è altro da fare”. Quando Adán Barrera, il señor, torna in
Messico, è chiaro che la lotta riprenderà: il traffico di droga, la
malefica rotta dal produttore al consumatore, diventa (persino)
relativo. E’ paradossale, ma è proprio così, Il cartello mostra
una dimensione differente, e più allarmante. L’obiettivo è una
forma di controllo del territorio e (quindi) di governo, con le sue
suddivisioni (le plaza) e le sue tasse (il piso).
Questo è il messaggio che si allunga attraverso Il cartello.
E’ una partita a scacchi, fragile e pericolosa, che si allarga a
macchia d’olio dal Messico, anche se l’epicentro resta lì. Solo
che è una scacchiera dove la separazione tra i bianchi e i neri non
è così chiara e le mosse delle pedine non sono mai corrette. Non si
tratta (soltanto) delle zone d’ombra: è che capita con una certa
frequenza che i bianchi diventino neri e i neri diventino bianchi. I
ribaltamenti di fronte sono repentini: con un cambio di alleanza, un
matrimonio, una fuga, un accordo, un tradimento. L’unico aspetto
che rimane inalterato è il nodo che unisce Art Keller e Adán
Barrera, visto che uno è la nemesi dell’altro. Art Keller lo
insegue come una vocazione, un’ossessione, una meta che è lo scopo
della sua vita e su cui giocare la carta della morte, la sua e quella
di Adán Barrera. Attorno agli opposti estremi, Don Winslow vira
tutto con il ritmo forsennato di un thriller che lascia senza fiato:
spietato, serrato, trascinante Il cartello è un romanzo epico
che racconta una realtà tragica.
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