Nord
e Sud Carolina, tra il 1954 e il 1960: padre e figlio (stesso nome:
Clyde Meadows Delman) distribuiscono bibbie, la domenica. Per il
primo è un'estensione del suo lavoro (è un commesso viaggiatore e
l'automobile, in pratica, è la sua vera casa) e un modo per
ricostruire una parte della sua vita. Per il secondo, il più
piccolo, è una continua scoperta e sorpresa in “un periodo in cui
le cose andavano a gonfie vele, un momento di semplicità che
confinava in parte con l'idiozia”. L'appunto, molto sibillino, si
fa notare fin dall'inizio. La madre, e moglie, con il nome
propiziatorio di Grace, rimane isolata e nella sua (nemmeno tanto)
splendida solitudine consuma rapporti intensi e fugaci, e tutti lo
sanno, perché Falls (altro nome suggestivo) è un libro aperto, come
tutte le sacrosante smalltown. Un trittico di eventi (a partire da
quello centrale, annunciato fin dal travolgente incipit) spezza la
stramba trinità della famiglia Delman e il Clyde junior, come
andrebbe anche nella realtà, se ne assume la responsabilità, per
quanto ignaro delle contorsioni dell'età adulta: “Ho portato il
mondo dentro casa e tutti noi ormai dobbiamo vivere così, scoperti,
nell'arida luce pubblica”. In superficie, Allan Gurganus è
ironico, elegante, persino cinematico nel raccontare l'America dei
motel e delle automobili, delle strade e di quello che c'è ai
margini delle strade. Il linguaggio (però) non è per niente
politically correct: è scomodo, spigoloso, a volte urticante, come
sa esserlo Allan Gurganus, in Santo
mostro
più che altrove. La voce è immediata, forte, pungente. Per dire,
anche particolari che sfuggono sullo sfondo lampeggiano da soli e
quindi le forsizie diventano punti interrogativi. Per articoli più
importanti, Allan Gurganus ci aggiunge un pizzico di fiele in più e
allora la Packard Clipper Deluxe su cui transitano e abitano è “una
delle ultime volte il cui la pubblicità americana dichiarava il
vero. E mio padre era l'uomo più gentile del mondo”. Tutte le
altre forme vengono ricondotte ai due Clyde Meadows Delman e al
segreto che li unisce. Clyde Meadows Delman è brutto, il volto “era
il corrispettivo facciale delle uova strapazzate” e, in effetti,
Santo
mostro
è anche un'apologia della bruttezza. Solo che è anche dolce,
premuroso, “un uomo che a dispetto di tutte le circostanze aveva
imparato a intrattenere se stesso e poi gli altri”. Ognuna delle
storie e delle frasi che compone Santo
mostro
è un'esplosione di parole e la giustificata ossessione per
l'identità produce un legame riservato ed esclusivo, che Clyde (il
figlio, ma forse anche il padre) risolve pensando che “forse basta
credere in una cosa. E' quasi tutto lì”. Quando l'infanzia e il
tempo ramificato dei due scompaiono insieme, Clyde, il vecchio,
sembra aggrapparsi al passato perché il mondo di allora era “più
semplice, frontale come uno spettacolo di burattini, era perfino più
bizzarro”. Clyde, il giovane, si accorge invece che sta
“velocemente diventando adulto se diventare adulti vuol dire
violare qualche legge meschina in nome di ragioni più generose e
importanti”. Rimane solo (e sola) Grace che, liberando le sue
energie, trasformerà gli occasioni tête-à-tête
in una serie di redditizi matrimoni. Niente di più americano, con un
finale beffardo, e perfetto.
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