Mark Twain
Il viaggio in Italia di Mark Twain è fatto di meraviglia e stupore, è il tentativo di comprendere di un paese esotico e variopinto, di un mondo che al grande scrittore appare senza dubbio affascinante in tutta la sua decadenza, una zona in cui “hai la sensazione di trovarti sul fondo di un abisso tremendo, sovrastato in lontananza dal mondo intero. Entri ed hai un’idea chiara dei punti dei cardinali quanto quella di un cieco”. La definizione si presta tanto alla visita di Genova, vista dall’interno dei vicoli e dei caruggi come in un sogno o a quelle di Pisa, Firenze, Livorno, Napoli e Roma attraversate e visute in un “viaggio per imparare” che vuole dire “sapere che stai camminando là dove nessun altro ha camminato; e che stai vedendo ciò che l’occhio umano non ha mai visto prima; che stai respirando aria vergine”. Il tono di Mark Twain è spesso meravigliato e incantato come davanti al duomo di Milano che gli presenta tutto: “un mondo solido che, tuttavia, al chiaro di luna, pare un’illusione fatata di arabeschi di ghiaccio pronta a svanire in un soffio! Con quale nitidezza le sue guglie ornate di angeli e la turbolenza dei suoi pinnacoli si stagliavano contro il cielo e con quale ricchezza le loro ombre si proiettavano sul suo tetto candido! Una visione!”. La sua percezione si basa più sulle emozioni e sulle sensazioni perché la sua conoscenza storica e politica del mosaico che compone Italia è modesta, credendola uno stato con una solida realtà istituzionale, che non abbiamo nemmeno oggi, a distanza di più di un secolo da quei viaggi. Eppure, anche affidandosi all’istinto, alle piccole osservazioni della vita quotidiana, Mark Twain si accorge di una magniloquenza, di una vita fantastica e folle e di tutte le sue contraddizioni. Città dopo città, i suoi giudizi si fanno sempre più sicuri e affilati, cominciando con la partenza da Venezia: “E così, ora che siamo appagati, domani si parte, lasciando la regina delle repubbliche impegnata a chiamare a raccolta le sue navi e a schierare le sue chimeriche armate e a rinverdire in sogno l’orgoglio della sua fama passata”. Il ritorno a casa, vissuto quasi come un sollievo, sarà il momento in cui Mark Twain stilerà la sua sentenza e, mettendo da parte la bellezza di un paese che sembra godersi la sua dannazione, scriverà: “Per quel che capisco, l’Italia per millecinquecento anni ha concentrato tutte le sue energie, tutte le sue finanze e tutta la sua operosità nella costruzione di una vasta gamma di meravigliosi edifici ecclesiastici, affamando metà dei suoi cittadini pur di riuscirvi. Al giorno d’oggi, è un grande museo di magnificenza e miseria. Tutte le chiese di una normale città americana insieme non riuscirebbero ad acquistare i fronzoli preziosi di una delle centinaia di cattedrali d’Italia. E per ciascun mendicante americano, l’Italia può sfoggiarne un centinaio, con tanto di cenci e parassiti. E’ il paese più disgraziato e principesco della terra”. Avviso ai (prossimi) viaggiatori: l’impressione è ancora valida, oggi più che mai.
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