La trama di Una domanda di matrimonio è poco più di un sketch teatrale ambientato nell’alta (altissima) borghesia di Chicago: il miliardario Sigmund Adletsky sceglie come consigliere il protagonista, Harry Trellman e, in modo nemmeno tanto velato, lo riavvicina al suo primo amore, Amy Wustrin, un’ossessione che non l’ha mai lasciato. Intreccio schematico, o del tutto inesistente, ma se ci si chiama Saul Bellow bastano un centinaio di paginette, tre o quattro personaggi e l’abilità di svelare tutto attraverso le parole per risolvere quell’esercizio di stile che è alla base di Una domanda di matrimonio. Dato un volto (un po' autobiografico e dai lineamenti vagamente orientali) trovare una storia che regga e che, pur incompiuta, abbia una sua conclusione, se non altro provvisoria. Saul Bellow rivela l’arcano cercando, dall’alto della sua esperienza, una formula che tenga in considerazione la raffinatezza del suo stile così come il tenore dei pettegolezzi, delle chiacchiere e delle voci con cui circola il novanta per cento delle informazioni di Una domanda di matrimonio. Le argomentazioni prendono forma fin dall’incipit e per tutto il romanzo sono “un processo di segreta suggestione”, bellissima definizione dello stesso Saul Bellow, nel cercare di definire i rapporti tra i personaggi anche se “a qualunque livello più profondo, ciò che si sa è tanto inesatto e confuso quanto le nuove informazioni che finiranno per aggiungersi alle vecchie”. Una domanda di matrimonio è tutto sospeso nel rumore di fondo di confidenze e consigli e confronti, dove “ognuno si prepara, e attribuisce agli altri il potere di giudicare, accorda loro il possesso di criteri che possono essere invece inesistenti”. Una salamoia di parole in cui ogni “storia privata” diventa un esilio, come lo chiama altrove Saul Bellow, reso pubblico dalla sua stessa decadenza. E se tutto il romanzo si risolve, per sommi capi, in quattro o cinque episodi fondamentali (e sceneggiarlo potrebbe essere un altro interessante esercizio di scrittura), ne guadagnano il ritmo e l’eleganza che Saul Bellow sfoggia come se fossero gioielli di famiglia da mostrare soltanto nelle grandi occasioni. Così Una domanda di matrimonio scivola via leggero, come direbbe Italo Calvino, ma nello stesso tempo perfettamente inserito, cioè dentro ai personaggi, “i vivi, i mutilati e imperfetti”, scandendo i loro sentimenti “finiti in magazzino, più o meno permanentemente”, insieme al paesaggio urbano di Chicago (“La differenza tra una città e l’altra non è grande, sotto la maschera superficiale”) descritto con il gusto e l’attenzione ai dettagli che sono necessari per far capire dove ci si trova e quanto influisce lo spirito dei luoghi sulle storie. Le quinte sono fatte di neve, vento, dal lago che sembra circondare la città e da un cimitero ebraico in cui Una domanda di matrimonio finisce (o chissà, forse comincia) con un filo di romanticismo che a Saul Bellow, all’epoca ottantadue anni e con tanto di premio Nobel nel 1976, si può concedere in tutta tranquillità.
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