Lenny Bruce è stato l’animale più incontrollabile che l’America abbia mai avuto sulla schiena. Protagonista di un linguaggio apertamente provocatorio e dissacrante, di un’oralità fisica, proporompente e vitalissima, Lenny Bruce è un’alluvione di parole, idee, idiomi e battute. Tutto ciò ha concorso a renderlo una spina nel fianco dei silenzi della magioranza e un orrore per chi dialoga esclusivamente a colpi di proverbi, luoghi comuni e frasi fatte. Una vera e propria forza della natura con pochi eguali (e molti imitatori) che ha estrapolato la potenza della comunicazione verbale in monologhi (tour de force fisici ancora prima che intellettuali) che hanno messo alla gogna quell’american way of life così ambiguo e intollerante. Sperimentato in prima persona, tanto è vero che più di un sospiro di sollievo si levò quando Lenny Bruce tolse il disturbo (agosto 1966, overdose di eroina) lasciando una biografia che parla da sola. Non è difficile trovarlo impigliato tra le gesta degli eroi della Beat Generation, ma come William Burroughs, Lenny Bruce la visse come parte di un’esperienza globale, come punto di partenza per un’evoluzione della sua carriera, cioè della sua esistenza. E non è qualcosa da poco perché l’oralità, il monologo, comunque l’arte di raccontare dal vivo eleva al massimo esponente la necessità di avere qualcosa di cui narrare, senza potersi fermare. Non sono possibili inganni: la storia ci deve essere per forza, il linguaggio (o lo stile, se è più chiara l’idea) pure, l’energia anche, le idee (sulla letteratura e sulla vita in generale) necessariamente tante. Non si fermò mai, Lenny Bruce anche nel pieno delle battaglie per difendersi dai tentativi di fermarlo, nel nome della morale e per conto di una censura mai dichiarata. Gli argomenti del contendere vertevano spesso e volentieri attorno alla sfera sessuale, tema su cui Lenny Bruce ha sfoderato alcuni dei suoi monologhi più vibranti. Nel pieno del processo per atti osceni in luogo pubblico (articolo 311 comma primo del codice penale della California) venne riascoltata (anche) una sua lunga orazione che si concludeva così: “Ora, se c’è qualcuno in questa sala, o in tutto il mondo, che trova questa parola, questo verbo venire, indecente, volgare, osceno, decadente, amorale, immorale, asessuale, se il verbo venire lo mette a disagio, se mi giudica volgare perché lo pronuncio davanti a lui, ebbene, probabilmente costui non riesce a venire. E allora non serve a niente. Perché questo è lo scopo della vita: ricrearla”. Una mina vagante per cui “la verità è ciò che è, non ciò che dovrebbe essere” e che, noncurante e sprezzante continuò a “parlare sporco e influenzare la gente”, due gesti che lo distinsero fino alla fine, quando salutò così: “Non sono stato molto buffo stasera. A volte non lo sono. Non sono un comico. Sono Lenny Bruce”. Nessuna finzione: soltanto parole, parole, parole. Parole vere, non per riempire gli spazi tra un niente e l’altro, ma piuttosto per vivere sopra le righe.
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