Sarebbe una straordinaria regista, Joyce Carol Oates, se avesse un po’ più confidenza con la cinepresa piuttosto che con la macchina da scrivere. La stessa, identica scena ripetuta all’infinito per centocinquanta pagine, la medesima inquadratura su quello che in apparenza sembra un normale (per quanto può essere normale) incidente stradale e mille particolari che invece ne rivelano una ben diversa consistenza. Questo è il concentrato minimo di Acqua nera, romanzo di Joyce Carol Oates che prende spunto dalla cronaca (il fattaccio è avvenuto realmente, protagonisti il senatore Ted Kennedy e una sua giovane segretaria che non ha più visto la luce del sole) per reinventare, ancora prima della storia, un modo di scriverla e di carpirne gli insegnamenti più reconditi. Acqua nera, intanto, comincia dalla fine, quando la sciagura automobilistica è già avvenuta, inaspettata e gravida di drammatiche conseguenze. Da lì, un punto imprecisato nelle paludi del Maine, Joyce Carol Oates procede per ricostruire non tanto il passato di Kelly Kelleher e del senatore (che nel romanzo sembra non avere altro nome), quanto il meccanismo, viscido e subdolo, che, una volta incontrati, li ha proiettati verso un destino buio e minaccioso. Il percorso da seguire è solo in parte a ritroso nel tempo, perché i flashback di Acqua nera si limitano a illuminare quelle parti in cui è necessario avere gli strumenti per collegare due esistente talmente differenti come quella di Kelly e del suo potente accompagnatore. Il passato funge solo da riferimento, un orizzonte costante per mantenere saldamente legati alla vera, unica immagine di Acqua nera, che sono i due passeggeri prigionieri della Toyota sprofondata nella melma nera e odorosa, metafora, questa sì, su cui difficilmente si può discutere. Attorno a questa cupa istantatanea che viene reiterata senza pietà capitolo dopo capitolo, Joyce Carol Oates assembla un quadro brutale della tracotanza del potere e della politica e affida alla voce agonizzante di Kelly Kelleher il compito di renderlo percepibile in maniera inequivocabile. La scelta di Joyce Carol Oates è geniale, nella sua cruda essenzialità: l’atto unico di Acqua nera è riproposto con una scansione ritmica regolare e ipnotica, ottenuta aggiungendo dettaglio su dettaglio con un’attenzione maniacale. L’incidente, il fatto in sé, che all’epoca aggiunse l’ennesima e cupa ombra sulla saga della famiglia Kennedy pur essendo fondamentale rimane sullo sfondo perché, quasi come un risarcimento, la protagonista diventa Kelly Kelleher “così raggiante e sicura di sé sulla spiaggia, coi nuovi occhiali da sole fascinosi e scuri con le lenti trattate per eliminare i raggi ultravioletti, e sapeva di star bene, non era una bella ragazza ma talvolta, sai, è venuto il tuo momento e tu lo sai, e non c’è felicità pari a questa felicità. Sei una ragazza americana: lo sai”. Poi l’inevitabile crudeltà del potere che Joyce Carol Oates racconta con durezza esemplare, trasforma quella visione idilliaca in Acqua nera. Il resto è cronaca.
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