Edward Allen ha fatto a lungo il macellaio. Ha scritto poesie, come tutti, più o meno. Oggi insegna letteratura a Memphis, città natale del rock’n’roll e in un non lontano passato è rimasto folgorato, tra i tanti, dal gran scrivere di Jack Kerouac. A tratti alcune frasi di Via verso la notte, il suo esordio sulla lunga distanza, dopo aver sperimentato la misura delle short stories, sono una versione così perfetta della prosodia di Sulla strada e dintorni che viene spontaneo pensare dove sia il confine tra emulazione e imitazione. Un esempio, abbastanza lampante: “Mi fermerò per un giorno a Stonington, nel Connecticut, e lì magari mi prenderò una sbronza. Andrò a spasso per tutta la città, senza una meta e niente da fare, forse entrerò in un cinema. Tutt’intorno sarà verde e frondoso, e coperto di spazzatura, ma non sarà brutto, perché quasi tutta la spazzatura sarà assorbita nella dolce terra che schiuderà la sua soffice superficie. Gli automobilisti correran di qua e di là, naturalmente, e penseranno che sono un pazzo o un vagabondo, ma mostrerò la mia patente di guida e quella nautica, e spiegherò che sono un marinaio in libera uscita, e questa sarà la verità”. E’ evidente, o fin troppo palese, che negli elementi basilari dello stile di Edward Allen, Jack Kerouac e compagnia vagante hanno avuto un peso rilevante ma, non di meno, Via verso la notte offre una miscela di umori che è molto più composita: Chuck Deckle, l’antieroe del romanzo che passa di licenziamento in licenziamento, da una macelleria all’altra (magari con qualche riferimento autobiografico che non guasta) appartiene allo stesso mondo dei posti e degli autisti di Charles Bukowski e molte delle scene di lavoro appartengono di diritto all’epica della working class. Questa è la parte più personale perché Edward Allen identifica con precisione “il mondo reale, come doveva essere il lavoro: duro, rumoroso, sporco, ma con qualche piacere, un posto dove si dice sempre buongiorno, anche nei giorni peggiori”. Via verso la notte è caratterizzato proprio dall’alternarsi di momenti di fuga liberatori e di cupe sequenze al taglio e al confezionamento della carne che, tra l’altro, sono anche le parti migliori del romanzo perché permettono a Chuck Deckle di riflettere l’essenza della sua storia, partendo ancora una volta dal luogo in cui si trova: “Tutto il mercato della carne sembrava una frattura nel tempo, che emana aria in antichi rutti di vapore sotto il viale che porta l’iniziale del nulla nella stagione di Halloween, nella saggezza dei secoli, tradotta dai caratteri cuneiformi come segue: il lavoro dovrebbe far male. I giorni sono solchi di terra avvelenata che si devono faticosamente attraversare. Chi non odia il suo lavoro lo fa male. Chi sa sorridere dei propri pensieri è un drogato”. Senza aggiungerci al coro di sproloqui che salutò l’esordio di Edward Allen (era il 1989), e tenendo conto di tutta l’autoindulgenza e di una certa propensione all’iperbole va segnalato un talento ancora da verificare.
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