Come ha notato una delle tante amiche coinvolte nella “conversazione americana” con Claudia Rankine, Just Us non ha una strategia: è una sequenza di considerazioni e di dissertazioni che comprendono le analisi elettorali e la tendenza dei capelli biondi, Lemonade di Beyoncé e Aretha Franklin, le violenze poliziesche e le richieste di riparazioni di Ta-Nehisi Coates. Non tutti i passaggi sono chiari e/o immediati: Claudia Rankine valuta con ossessiva attenzione ogni dettaglio, ogni gesto. Lo dice, subito, in prima persona: “Ho imparato presto che essere nel giusto non è niente davanti al puro e semplice fatto di mantenere un posto nella stanza. Succede ogni sorta di cose mentre avanza la notte. Ma a volte mi prende l’idea che la ripetizione si dà se le ruote continuano a girare. La ripetizione è insistenza e uno può colludere solo fino a un certo punto. A volte io voglio solo lanciarmi tra gli ingranaggi. A volte, come ha detto James Baldwin, voglio cambiare una parola o una sola frase”. Forse è l’unico modo, se non si vuole cadere nella trappola dei luoghi comuni e quindi dello status quo che tutela il privilegio (maschio, bianco) e rende un’incognita la vita di tutti gli altri (neri, in particolare). Questo è il vero dilemma articolato da immagini, fact check, liriche, impressioni “a meno che, ovviamente”, come riflette ancora Claudia Rankine “non sia un gioco a somma zero, e quindi l’equazione porti sempre zero ed eccoci ancora qui negli Stati Uniti d’America, sempre in fila, sempre conniventi, sotto tutte le nostre scelte, dentro tutta la nostra falsa sovranità”. La determinazione di Just Us è proprio la capacità di intravedere “la foschia che permea questa esistenza che viviamo gli uni a fianco agli altri ci chiama a farci avanti. Non voglio dimenticare che sono qui; in qualsiasi momento noi tutti ci troviamo a fianco a qualcuno che è capace del meglio e insieme del peggio che la nostra democrazia abbia da offrire”. Nella complessità formale sovrappone poesia e inchiesta, cronaca e storia, introspezione e polemica, Claudia Rankine non fa sconti dell’affrontare come il razzismo resti annodato strutturalmente alla società americana (e non solo). È un lungo e antico discorso in cui richiama Saidiya Hartman: “Una cosa credo sia vera, che è un modo di vedere l’eredità della schiavitù in relazione al modo in cui abitiamo il tempo storico, è il concetto di intrico temporale per cui passato, presente e futuro non sono entità discrete e rimosse l’una dall’altra, ma piuttosto una simultaneità intricata che tutti abitiamo. Questa cosa per i neri è quasi un’ovvietà. Ma come si fa a narrarla?”. La domanda, puntualissima, è una costante in Just Us che Claudia Rankine prova a ribadire come un diritto unico: “Quello che so è che posso sempre chiedere, anche quando sento ciò che non vorrei sentire. Posso sempre chiedere”. Gli interrogativi si moltiplicano (“Cosa insorge dentro, tra di noi? Cosa emerge perché siamo la storia che abbiamo dentro?”) e la distanza è inamovibile, lì, dove si trova Claudia Rankine: “Io sono qui, senza minimizzare, cerco di capire in che modo ciò che voglio e ciò che voglio da te corrano in parallelo, giustizia e un varco per noi soltanto, just us”. Prima persona plurale è un tentativo di dare forma a “un recipiente che ci contenga tutti, sebbene non fossimo mai intesi in completezza; non fossimo previsti a figura intera”. L’identità negata è tale che Wendy Trevino ammette: “Siamo chi siamo, per loro, anche se noi non sappiamo chi siamo gli uni per gli altri & la cultura è un registro di noi che cerchiamo di capirlo”. Il dubbio è alimentato dalla stessa Claudia Rankine che non nasconde il peso di lacerazioni mai lenite e confessa: “Ancorata nel non sapere, anelo a elevarmi oltre l’irrequietezza delle mie forme di impotenza dentro una struttura che soffoca le possibilità”. Per riuscire a spiegarsi ricorre, di nuovo, alle parole altrui, quasi a voler comporre un’attenzione corale, e in questo caso quelle di Jill Stauffer: “La solitudine etica è l’isolamento che una persona prova quando, essendo stata violata o essendo membro di un gruppo che ha subito persecuzioni, si è vista abbandonata dall’umanità, o da chi ha potere sulle sue prospettive di vita”. Il dialogo ininterrotto porta a una conclusione in qualche modo definitiva quando Claudia Rankine afferma: “La mia preoccupazione è sempre che stiamo già morendo, intendo che siamo già morti nel mondo sociale che persiste accanto alle vite che viviamo, mentre instancabili affrontiamo tutte le panzane che ci raccontano nella nostra infinita lotta per la giustizia”. Una visione lapidaria, drammatica, ma estremamente concreta.
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