L’uscita di Vuoi star zitta per favore? era stata una svolta epocale. Leonard Gardner scrisse che i racconti di Carver “parlavano del tradimento degli affetti più cari, per debolezza o egoismo, per mancanza di soldi o per rabbia contro una situazione di povertà, o per altro. Gente che non si prende a botte, ma compie questi tradimenti che causano un dolore atroce”. Nel 1976 l’impronta di Vuoi star zitta per favore? aprì uno spiraglio fondamentale nella letteratura americana che sarebbe tornata a guardare da vicino alla realtà ed era frutto della complessa liaison tra Carver e Gordon Lish, l’editor che aveva limato, corretto, modificato in profondità la scrittura delle short story. Ricordava Carol Sklenicka: “Nella stessa maniera in cui, in una registrazione, un tecnico del suono sa mettere in risalto uno strumento rispetto agli altri, Lish eliminò dei dettagli che assegnavano ai personaggi una storia distintiva o vendevano un’ambientazione specifica e intima. A volte cambiava il peso di una frase e, con la sostituzione, sapeva rendere il racconto più esplicito e anche più chiassoso”. Gordon Lish interverrà ancora e con maggior decisione nella raccolta successiva, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore il cui titolo originale era, appunto, Principianti. I racconti passarono almeno tre drastiche revisioni (se non proprio riscritture) e Carver oscillò tra l’entusiasmo iniziale e momenti di totale disappunto (dove parlava di vere e proprie “amputazioni”) che lo portarono a più riprese a chiedere a Lish di sospendere la pubblicazione, come è documentato dal loro epistolario. La riproposizione in Principianti della versione non filtrata di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è un po’ ambivalente. Così come li abbiamo conosciuti, i racconti di Carver, tagliati “fino al midollo”, restano frutto del legame e dei contrasti con Gordon Lish e con ogni probabilità ha senso avere entrambe le versioni, quella passata attraverso le forche caudine di un editing feroce e quella originaria, ricostruita dal lavoro di ricerca di William L. Stull e Maureen P. Carroll. Il motivo è semplice: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è uno snodo contorto e complicato nella biografia stessa di Raymond Carver, e un punto di non ritorno della saga con Gordon Lish, che è celebrata in tutte le sue contorsioni in Principianti. Da lì in poi maturerà lo sviluppo stilistico che porterà a Cattedrale, e alla definitiva consacrazione tra gli autori americani più importanti del ventesimo secolo. Detto questo Raymond Carver racconta essenzialmente una luce, una luce che è sempre tangenziale, obliqua, aurorale o crepuscolare. È sempre una scrittura in bilico, tra la percezione della realtà e la sua descrizione nei contorni di una “spettrale luminosità”, come ha scritto Clark Blaise. Le quinte sullo sfondo sono composte da una desolazione dove il blue è un tema dominante, e non è soltanto una sfumatura dei colori, ma anche un’espressione dell’atmosfera in cui si muovono i suoi personaggi. Aveva ragione Tim O’Brien ad avvertire il lettore che per cogliere il senso dei racconti di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore servono “atti d’immaginazione e deduzione”, e qui diventa chiaro dove ha portato tutto quel lavoro di sottrazione, perché come diceva Carver “in fondo tutto quello che abbiamo sono le parole”, e meritano la giusta attenzione, e anche un po’ di editing.
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