Avendo letto Edgar Allan Poe, William Faulkner e Nathanael West, il giovane Chuck Kinder aveva già capito che “dato che non hanno un valore vero e proprio, le cose di questo mondo devono acquisirlo. E lo acquisiscono grazie a noi. È così che partecipano alla nostra realtà, una realtà che alla fine le trascende. Anzi, che trascende anche noi. Ed è tutto così, disse. Tutti i colori, tutte le trame, la forma di tutte le cose, anche il tempo e lo spazio: sono tutti sviluppi illusori dell’intuizione”. È proprio quello che si percepisce nello sguardo di Speer Whitfield: cresce in una famiglia matrilineare, dominata dalle figure femminili, dato che gli uomini sono occupati con l’alcol, con le risse e a decidere chi siano i migliori sputatori di tabacco (con la sottile distinzione delle categorie sportive di sputare dal finestrino o in un barattolo). Qualcosa di animalesco (e innocente) permea Snakehunter, romanzo di esordio di Chuck Kinder, anno di grazia 1973, e non solo per la complessa zoologia, una fauna che si sviluppa in un mondo parallelo, contiguo e simbiotico a quel paesaggio umano che si dissolve via via con l’inoltrarsi di Speer Whitfield nella vita. Nelle sue avventure non ci mette molto a scoprire che “i viaggi servono a tornare a casa con oggetti strani, è questa la loro vera funzione, mi diceva. Tutti noi abbiamo l’istinto a voler familiarizzare con le cose. Per assecondare adeguatamente questo sentimento bisogna rendere lo strano e il curioso più banali possibili. In quale altro modo si può negare la fredda e inumana indifferenza delle cose? In che altro modo?”. In realtà i movimenti di Snakehunter ruotano intorno alle strade sterrate, lungo il fiume, tra i boschi e alla rudimentale formazione di Speer Whitfield si avvolge “la magia e cose del genere”: le collezioni di fossili e di lapidi, le proprietà degli alberi, Tarzan, i frequenti riferimenti ancestrali, i riti delle culture indigene e native (che introducono ogni singolo capitolo di Snakehunter), la natura conflittuale del corpo e della famiglia, le prove di coraggio, gli inni e le canzoni come “un suono simile a nessun altro e che in un unico momento era capace di raccontare sotto forma di canto dove tutto era stato, dove tutto era iniziato, e dove alla fine sarebbe tornato”. Take Me Home, Country Roads, verrebbe da dire, ed è chiaro fin dall’inizio che Snakehunter risale la corrente con la solida certezza che “il passato è l’unica realtà veramente incontrollabile”. Lo ribadisce anche nel finale quando Chuck Kinder e Speer Whitfield collimano nel cercare di dettare i contorni fluttuanti della storia: “Badare ai fantasmi nella mia storia di fantasmi, far loro sempre rispettare le vecchie regole, lasciarli spaventare solo dove e come dovevano, perseguitarmi solo come segni, come simboli, raramente pericolosi o troppo terrificanti, è un trucco che ho cercato di padroneggiare per anni e anni, senza sosta”. E allora, di volta in volta, Speer richiama l’attenzione su un’intensa galleria di personaggi che comprende madre, sorella, zie, zii, cugini, amici e nemici con i nomi di Albert, Ercole, Finus, Hutch, Erica, Hilda, Cynthia e Catherine, la preferita. Ognuno con i suoi lineamenti e la sua storia e altrettante maschere con tutti i simboli e gli archetipi che, alla fine della tumultuosa scoperta, danno a Speer “l’impressione che siano tutti invecchiati all’improvviso”. Il senso è quello, ma più ci si addentra nel labirinto di Chuck Kinder più diventa chiaro che “siamo persi nelle profonde vene interiori di qualche bestia addormentata attraverso il cui denso sangue noi guadiamo. E non ci sarà scampo per noi”. Snakehunter è un romanzo denso “come un sogno a occhi aperti”, come una ballata di Hank Williams, come una lunga estate che non finisce più, perché è destinata a diventare un ricordo, graffiante e indelebile.
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