Nell’arco di tutti i saggi di cui è composto Mangiare è un atto agricolo, che coprono un arco temporale dal 1971 (Norme igieniche per agricoltori) al 2006 (Suolo e salute), si condensa la distinzione tra il “pensiero industriale” e “l’economia di carta” e un diverso equilibrio tra qualità, benessere, “una gestione parsimoniosa delle risorse” e la considerazione generale della natura. C’è una spontaneità nelle parole di Wendell Berry che sono frutto dell’osservazione, dell’esperienza, più che dello studio o dell’analisi, e parte da un gesto spontaneo e innato come quello di nutrirsi. Con Il piacere di mangiare (1989) Wendell Berry chiarisce subito che “mangiare è un atto agricolo, il momento conclusivo del ciclo annuale dell’economia alimentare che inizia con semina e nascita”, mentre “i prodotti della natura e dell’agricoltura, a quanto pare, sono stati trasformati in prodotti industriali. Mangiatore e mangiato sono pertanto esiliati dalla realtà biologica. Il risultato è una sorta di solitudine del tutto nuova nell’esperienza umana, dove chi mangia può pensare che mangiare sia prima di tutto una transazione puramente commerciale tra sé e il fornitore, e poi una transazione puramente gastronomica tra sé e il cibo”. Questa separazione incide sul gusto in sé del mangiare che “dovrebbe essere un piacere ad ampio raggio, che travalica quello del puro e semplice buongustaio. Chi conosce l’orto in cui sono cresciute le sue verdure e sa che è sano, ricorderà la bellezza delle piante che prosperano, magari nel primo mattino, quando sono imperlate di rugiada e l’orto è al massimo del suo splendore. È un ricordo che si lega al cibo e costituisce uno dei piaceri del mangiare. La consapevolezza del benessere dell’orto rasserena, libera e conforta colui che si nutre dei suoi prodotti”. Fra il genere umano e questo orizzonte si frappongono l’industria e l’economia o meglio quel pensiero focalizzato su industria, economia e profitto che vede e uomini e natura come elementi da sfruttare, senza contare il loro ruolo e le loro necessità. È “il totale divorzio dell’economia industriale da qualsiasi ideale e principio al di fuori di sé” che impone un supplemento di riflessione e comincia dove Wendell Berry insiste nel sottolineare lo spreco (non c’è soluzione ai “sottoprodotti”) autorizzato e continuo perché “il pensiero industriale è un pensiero senza rimorso. In pratica accetta semplicemente che le persone siano trattate come cose, e che in ultima analisi le cose siano trattate come spazzatura”. In Soluzioni agricole a problemi agricoli (1978) ricorda che la sostenibilità nasce proprio dall’accorgersi che “tutto ciò che viene scartato nell’arco di vita di un ciclo naturale resta all’interno dello stesso e si trasforma in fertilità, cioè nella capacità di rigenerare vita. In natura, morte e decomposizione sono necessari, qualcuno arriverebbe a dire vivi, quanto la vita”. Questa diversa percezione dello scarto, del rifiuto, reinserito nell’ambiente porta Wendell Berry a ricordare che “la natura è il valore ultimo del mondo reale e di quello economico. Non è possibile sfuggire a essa, né alla dipendenza da essa. Costituisce per così dire da sola il proprio contesto, mentre il contesto dell’agricoltura sono in primo luogo la natura e quindi l’economia umana”. Il concetto di “habitat” e identità del luogo e comunità è al centro di Reinventare la cura della terra (2004) proprio dove “il contadino, la sua famiglia, le colture e gli animali fanno parte della comunità del suolo, appartengono tutti al carattere e all’identità del luogo”. Ecco allora, come scriveva in conclusione dello stesso saggio, che “la definizione di una forma comincia con il riconoscimento e l’accettazione dei suoi limiti”. La dimensione del “paesaggio economico” dovrebbe tenere conto di questa prospettiva mentre Wendell Berry prendeva atto in Conservazionista e agricoltore (2002) di “un paesaggio che oggi è caratterizzato da un pericoloso eccesso di semplificazione assumerà un carattere di sana complessità, sia dal punto di vista economico che ecologico”. Al contrario, “occorre conservare un legame corretto tra domestico e selvatico. Il metro supremo per giudicare il lavoro dev’essere il benessere del luogo in cui esso si svolge”. In definitiva, “rinunciare al principio della proprietà democratica della terra, l’unico vero fondamento della libertà democratica, in cambio di capziose nozioni di efficienza e delle logiche economiche del cosiddetto libero mercato è un atto di tragica follia”. Difendersi da questa ingerenza distruttiva e a senso unico, vuol dire non dimenticare che “la sostenibilità poggia su tre pilastri fondamentali: solidità ecologica, fattibilità economica e giustizia sociale”. Lo scriveva John Ikerd, opportunamente citato da Wendell Berry che si spinge più in là e in L’agricoltura dalle radici in su (2004) evidenzia, ancora una volta, che “tutto è connesso, il contesto non può essere mai ignorato”. Non bastasse in appendice si trova Manifesto. Il fronte di liberazione del contadino impazzito (1973), una ballata utopica che in un passaggio dice: “Dichiarate che il raccolto più importante è la foresta che non avete seminato, che non vivrete abbastanza per tagliare. Dichiarate che il raccolto di foglie è compiuto quando marcisce nel terriccio scuro. Chiamate tutto ciò profitto, profetizzatelo come guadagno. Riponete la fede nelle tre dita di humus che crescono sotto gli alberi ogni mille anni”. Si può fare.
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