La vita sulla strada è una vocazione ed è dura, pericolosa e spietata. Viaggiare senza soldi, senza biglietto e il più delle volte senza destinazione non ammette una seconda chance: i treni non si fermano mai, la solitudine è continua, la follia è in agguato e la caccia non finisce mai, perché i poliziotti, i guardiani, il potere espresso dalle divise lungo le ferrovie ingaggia una lotta senza esclusioni di colpi con i vagabondi. Leon Ray Livingston alias Numero Uno conosciuto anche come A-N°1 racconta il suo pellegrinaggio da una costa all’altra degli Stati Uniti all’inizio del ventesimo secolo, un periodo di grave crisi economica, tanto per cambiare. La compagnia di Jack London non è del tutto acclarata, anche se la conoscenza e l’amicizia tra i due è ben testimoniata, ma nell’insieme poco importa: Ray Livingston un po’ inventa, un po’ millanta, un po’ riporta con fedeltà il tracciato di un viaggio in un universo parallelo dove vigono codici, slang, graffiti e forme di espressione che fanno degli hobo una bizzarra comunità in perenne movimento, mimetizzata tra le pieghe delle periferie urbane, nascosta nelle ombre, aggrappata all’elemosina, ai miti e alle leggende per sopravvivere. Il rosario di avventure si snoda con il tono grezzo e confidenziale di una ballata agrodolce: a volte comico, a volte drammatico è soprattutto una carrellata di un’umanità in fuga, allo sbando, disperata eppure assorbita e devota alla propria cultura che non prevede né tetto né legge, visto che “per un vagabondo è un’inezia adattare il proprio percorso alle circostanze”. Tutto ruota attorno alle storie, che servono per mangiare, per ricordare di chi ci si può fidare, per segnalare il pericolo di un detective o di un cane feroce (nessuna distinzione tra i due), per avvisare di ostilità e per mettere in guardia da luoghi da cui è preferibile “andarsene al più presto” e, più di tutto, per evidenziare “che c’erano individui le cui pratiche spregiudicate raggiungevano lievlli di perversione di cui un hobo non sarebbe mai stato capace. No, nemmeno il più cinico dei vagabondi”. La discriminante nella cultura dell’hobo e nell’eterna guerra tra i i John Bum e i John Law (ovvero gli sceriffi) è proprio lì. La strada resta il mito fondante con il rifiuto delle regole, delle consuetudini (prima, tra tutte, quella del lavoro manuale) eppure nello stesso tempo, con uno scontro continuo come se gli hobo e i loro nemici vivessero una simbiosi obbligatoria. La precarietà, la fame, la solitudine, le malattie, la violenza (“La società sbava e si intenerisce per ogni vagabondo che ha ricevuto un colpo ben meritato”) e l’indifferenza non bastano. L’espiazione che attende gli hobo non è soltanto una pena definitiva, è proprio un’abiura: “C’è un modo per combattere i fuorilegge, e nella maniera più efficace: aprire dappertutto cantieri stradali, fattorie e campi di lavoro per accogliervi e intrattenere a lungo coloro che disprezzano con virulenza il lavoro onesto. Mentre si guadagnano da vivere, i criminali dovrebbero provvedere anche al mantenimento di tutti gli altri indigenti, eliminando così due voci di spesa dai conti pubblici”. Jack London o meno, giunti in fondo al taccuino di Leon Ray Livingston si intuisce che per quanto sostanzialmente innocui (rispetto a ben altri delinquenti) gli hobo mettono in discussione il sistema costituito, le certezze dei self-made man, l’idea del successo, lasciando emergere, quella plateale contraddizione per cui l’America è la terra dei liberi, ma solo per chi se lo può permettere.
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