Poeta di sogni (“Ciò che ci è dato nei sogni è una mano di tinta blu, o messaggi alle nuvole. La sera si aspetta che cada la pioggia e si schiarisca il cielo. Le nostre parole sono parole per l’argilla, dette sottovoce, i nostri gesti lenimenti per il vento”) e di concretezze, Charles Wright (1935-2000) è sempre stato esplicito nel rendere noto che gli interessavano “tre cose, in poesia come nella vita: il paesaggio, la lingua e l’idea del divino”. L’osservazione e la contemplazione sono la scintilla iniziale, fin dall’epifania vissuta dal giovane Charles Wright nei luoghi virgiliani sulle coste del lago di Garda, e poi a Verona e a Venezia. Legatissimo all’Italia anche per le traduzioni dei Canti orfici di Dino Campana, dell’Inferno di Dante e delle poesie di Eugenio Montale, si accorge ben presto che la sua vita “è diventata così, metà indecifrabile, metà geografica nuova, paesaggi immobilizzati e adombrati, memoria spanata”. Il paesaggio è un tema ricorrente, assiduo, perché “è sempre stato la parte migliore. I luoghi riaffiorano e riaffondano, come i giorni, i contorni di quel che accade davvero, non li ricorderemo mai, per quanto intensamente si scruti il passato”, ed è definito dall’aria (“La vita di questo mondo è vento. Il vento ci porta, il vento ci porta via. Ogni cosa che guardiamo l’ha portata il vento. Ogni cosa che ricordiamo è vento”) e dall’acqua, una costante negli scorci fluviali e marini delle liriche di Charles Wright e un metro di riferimento: “Il libro comunque dice, tempo non è movimento del corpo ma memoria di movimento del corpo. Tempo non è acqua ma la memoria dell’acqua: misuriamo quel che non c’è. Misuriamo il silenzio. Misuriamo il vuoto”. L’azione è limitata, l’attesa è tutto: “Voglio sedermi sulla riva del fiume, all’ombra dell’albero sempreverde, guardare in faccia quel qualcosa, il qualcosa che mi sta aspettando”. È il motivo per cui “al cuore di ogni poesia c’è un viaggio di scoperta” e qui Charles Wright è generoso nel rivelare che “la poesia è un codice senza messaggi” e “ci tocca qui. Ci tocca qui e qui”. Come scrive in Diario della notte: “Io scrivo con inchiostro visibile, parole nere che scompaiono se sollevate alla luce, io scrivo per dimenticare, non per ricordare, parole come migliaia di frammenti di pellicola esposti al sole. Non vedo mai nient’altro che il fondo”. Affrontare lo strumento complesso e ambiguo delle parole lo porta a leggere la poesia come suono che nelle sue mani diventa ballata e canzone, un refrain ripetuto a ricordarci che “ci definisce quel che dimentichiamo, resta al suo posto, e attende d’essere riscoperto”. Ecco l’idea di divino, che coincide con quella di bellezza, con “una sua integrità, indipendentemente dal suo rapporto dell’insieme”. È marginale all’aspetto religioso: per Charles Wright “l’anima è l’aria, e ci mantiene” e così confessa: “Dopo tutti questi anni, scopro d’essere credente, credo a quel che il tuono e il lampo hanno da dire; credo che i sogni siano veri, e due siano le rappresaglie della morte; credo che le foglie secche e l’acqua nera riempiano il mio cuore”. I contrasti voluti, forti, appariscenti, sono necessari nell’evidenziare come “le cose che ci rivelano non le tocchiamo mai” perché “una cosa viene un’altra va, senza inciampi. Diventiamo così presto gli accoliti del nulla e l’altare del nulla ci redime e ci rende compiuti, ora per la prima volta, e ciò che siamo è ciò che non siamo, estatici e sconosciuti. Resiste soltanto il nostro inizio”. Arrivato a quel punto, il Crepuscolo americano (che è il modo migliore per conoscerlo) torna all’idea di partenza, dove Charles Wright scrive (in Autoritratto): “Questo è un piccolo luogo, un po’ arrossato nel cielo prima che sorga il sole. Teniamoci per mano, teniamoci per mano”. Un poeta da ascoltare con cura.
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