Prendere
nota degli anni, perché la definizione dei limiti, quando l’arte è
l’unico “movente”, è essenziale. Come è specificato con
precisione, Il sogno di Rimbaud
racchiude “poesie e prose 1970-1979”, anni di fame e di
attrazione, di lampi e di Stratocaster, di alchimie e di anarchia.
Proprio in mezzo, nel 1975, c’è lei, sulla copertina di Horses,
ritratta da Robert Mapplethorpe, compagno e complice d’avventure.
Lo snodo rimarrà sempre quello, e se ne trovano fragili tracce,
sparse e nascoste sui bordi delle pagine che contengono Il
sogno di Rimbaud, come piccoli segnali a
ricordare “un tempo che sanguinava in altro tempo. Un tempo che noi
aggredivamo, sfumando ed espandendo i perimetri dell’amore, della
coscienza e del rimorso. Spinti dalla speranza comune di mostrare
degli aspetti dell’arte, della poesia e del rock’n’roll, ma
anche dell’amore fra gli uomini, che non si erano mai svelati
prima”. Nell’avvertenza per il lettore, Patti Smith si spinge
anche più in là, definendo i margini tra celebrazione e nostalgia,
passato e futuro: “Eravamo innocenti e pericolosi come bimbi che
attraversano un campo minato. Alcuni non ce l’hanno mai fatta. Ad
alcuni la sorte ha riservato campi ancora più infidi. E ad alcuni
pare invece sia andata bene, sono sopravvissuti per ricordare e
rendere omaggio agli altri”. Dedicato più a se stessa che a
Rimbaud, attraverso la lettura e la collocazione di compagni di
viaggio, eroi, miti e passioni, Patti Smith sviluppa il moto perpetuo
della sua insistente vocazione all’arte, con la famelica voracità
dell’autodidatta e un’inesauribile curiosità. I nomi scorrono
come un torrente gonfiato dalle piogge della primavera e in un felice
disordine appaiono: Edgar Allan Poe, Picasso, Rothko, Brancusi, Edith
Piaf, William Burroughs, Bresson, Diego Rivera, Pollock, Pasolini,
Michelangelo e Robert Frank. Davanti alle fotografie in bianco e nero
di The Americans,
Patti Smith tenta ancora di “decidere cosa vuol dire essere
americana”, ed è uno degli infiniti giochi di parole, rebus e
associazioni che costellano Il sogno di
Rimbaud. Il flusso di coscienza è più
diretto, immediato e innocente quando si tratta di rock’n’roll
perché “la musica è viscerale, poesia come intreccio, una poesia
è un insieme di parole”. Little Richard, Mick Jagger, Brian Jones,
Jimi Hendrix, Dylan vengono evocati in continuazione, con assiduità,
visto che “la chitarra elettrica è una voce non meno che un
congegno”. Più di tutti, in realtà, Il
sogno di Rimbaud è popolato dal fantasma di
Jim Morrison, “il nostro agnello di cuoio” che appare a più
riprese tra brandelli delle canzoni dei Doors e le preghiere che
Patti Smith gli riserva, quasi come un rito quotidiano. Ancora a lui
è dedicata un’ampia parte nella coda che conclude Il
sogno di Rimbaud, con L’urlo
della farfalla. Le “riflessioni su An
American Prayer” riguardano l’album
postumo assemblato dai Doors e pubblicato verso la fine del 1978. Le
date cominciano a farsi interessanti perché Il
sogno di Rimbaud viene delimitato in sostanza
dalla scomparsa di Jim Morrison e dalla resurrezione della sua voce,
anche se, come ammette Patti Smith, “c’è un che di vagamente
sacrilego nello scrutare un artista attraverso le mani degli altri”.
A quel momento, con il “bacio assoluto” e la “carezza della
morte” di Jim Morrison, Patti Smith riannoda il ricordo dell’ultimo
concerto di quella stagione, quello di Firenze. La gioia della
libertà e le “future fragranze” si scontrarono con un altissimo
prezzo da pagare e qui le coincidenze non mentono, anzi sono più
eloquenti della poesia perché Il sogno di
Rimbaud è diventato di pubblico dominio
insieme alla rivisitazione digitale di An
American Prayer, quando Patti Smith aveva
ormai imparato a portare il “fardello della mutazione”. Si era
ormai prossimi alla fine del ventesimo secolo, e magari “il quadro non è
completo, ma la parte migliore del viaggio resta intatta”.
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