lunedì 2 novembre 2015

Anne Waldman

La necessità di coagulare un'esperienza tanto vasta, come è stata la cosiddetta Beat Generation, si è sempre scontrata con l'impossibilità di definirne i limiti temporali, storici e stilistici. D'altra parte una qualche forma di selezione si è resa via via sempre più indispensabile, se non altro come prima ricognizione panoramica, anche se l'impresa è tutt'altro che agevole come si è ben accorta Anne Waldman: “Curare questa antologia è stato un po' come lottare con un drago tentando di cacciarlo in una scatola di fiammiferi”. La curiosa metafora rende bene la spontaneità della natura di The Beat Book, costruito con “un'attenzione concentrata piuttosto che onninclusiva” che riporta, sì, i nomi fondamentali della Beat Generation, i più noti e i più spettacolari (Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso) ma anche Lenore Kandel, Lawrence Ferlinghetti, Lew Welch, Philip Whalen, Michael McClure, John Wieners, Amiri Baraka (a suo tempo, LeRoi Jones) con l'omaggio a Miles Davis, Bob Kaufman, Joanne Kyger, Gary Snyder, Peter Orlovsky e Diane Di Prima: a cui va il merito di aver saputo esprimere con il limpido fraseggio della poesia che “il terreno dell'immaginazione è l'assenza di paura”. Questo è il minimo comune denominatore che rende The Beat Book un vademecum solido e coerente poi, come spiega con precisione Anne Waldman, “all'inizio ciò che coinvolge, diverte e attira è il mito della Beat Generation, il suo leggendario, la sua immagine culturale, ma alla fine ci si concentra sulla scrittura stessa e si esulta scoprendo che essa ancora respira”. Eccome. Giusto per rinfrescare la memoria, ecco qualche frammento a testimonianza della diversità e della complessità della percezione contenuta nell'indefinibile terra comune delal Beat Generation. Una prima asserzione, lucidissima e nello stesso tempo visionaria, di William Burroughs: “Io dico che tutto quello che non va avanti va fuori... Ma sapete cosa possiamo fare con la parola mettendoci un tocco speciale. E poi parlano dell'energia che c'è in un atomo. Tutto l'odio tutta la paura tutto il dolore tutta la morte tutto il sesso è nella parola. La parola una volta era un virus che uccide. Può diventare ancora un virus che uccide. La parola è troppo rovente da maneggiare e allora stiamo seduti sul culo aspettando la pensione”. All'estremo opposto, uno scampolo delle confessioni e delle confusioni di Neal Cassady: “Per me coltivare una giusta amministrazione delle idee in modo da trattenerle e da essere capace di metterle giù in modo chiaro è una difficoltà onnipresente in cui mi si impappina la mente. Tra l'altro, era proprio in questa linea di cercare di salvare qualcosa per la scrittura finché sarei riuscito a imparare a farne tutto un processo soltanto di pensare e poi mettere giù quel pensiero”. Tra un delirio (sacrosanto) e l'altro si trova anche la dichiarazione d'indipendenza di Jack Kerouac a John Clellon Holmes nel 1946: “Eravamo una generazione di furtivi. Capisci? Sapevamo dentro di noi che non serve a niente sbandierare chi sei a quel livello, ossia al livello del pubblico; era un modo di essere beat, cioè di impegnarci, con noi stessi, perché per noi tutti era chiaro a che punto eravamo, stufi di tutte le forme, di tutte le convenzioni del mondo”. Un'ambizione rivoluzionaria, una logica da outsider, una cristallina innocenza con cui Allen Ginsberg conclude così la premessa a The Beat Book: “Avevamo un gran lavoro da fare, e lo facciamo, cercando di salvare e guarire lo spirito dell'America”. La sconfitta è innegabile, la tragedia della realtà è sempre più forte, ma, come scrive Ann Waldman “l'impulso delicato e vivido ad afferrare il mondo al volo magicamente tramite il linguaggio” è rimasto integro, non integrato, beato, non battuto.

2 commenti:

  1. lo avevo visto, non lo avevo comprato, l'ho ordinato on line dopo aver letto la tua recensione, ciaoo

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