Le
ultime poesie di Wallace Stevens raccolte in Il
mondo come meditazione suonano
come una sorta di eredità spirituale, un estremo lascito che di
volta in volta assume le sembianze di augurio, profezia, testamento,
saluto e arrivederci. E’ vero che “una
poesia non è necessario che abbia un significato, e come la maggior
parte delle cose in natura spesso non ne ha”, d’altra parte
considerare Il
mondo come meditazione
implica il riconoscimento, tra i versi, di una riflessione
filosofica che comincia, come scrive in Conversazione con tre donne
del New England, quando
“il modo della
persona diviene il modo del mondo, per quella persona e, a volte, per
il mondo stesso”. Quello di Wallace Stevens è “un modo di
pronunciare il mondo entro la propria lingua”, spiega in Sulla via
dell’autobus, perché “siamo
esseri fisici in un mondo fisico, il tempo è una delle cose di cui
godiamo, una delle realtà non filosofiche. Lo stato del tempo
diventa presto uno stato di mente. Vi sono molte cose immediate nel
mondo che noi godiamo: una poesia perfettamente realizzata dovrebbe
essere una di queste cose”. Nella pratica, può essere tutto,
essendo fatta di parole che “sono
insieme icona e uomo” ed è nella sua applicazione che Wallace
Stevens si rivela, nel tempo, un poeta essenziale, indispensabile nel
sapere interpretare Il
senso ordinario delle cose o
Il corso di un particolare,
ovvero la primitiva realtà, sempre cosciente che “per quanto si
dica che siamo parte di tutto, la cosa implica un conflitto, una
resistenza; e l’esserne parte è uno sforzo che diminuisce: si
sente la vita che dà la vita così com’è”. Questa attitudine
lo vede più struggente che mai nel cogliere la “bella
rappresentazione” kantiana della bellezza naturale seguendo Il
fiume dei fiumi in Connecticut
(“Colmo di spazio, specchio delle stagioni, del folclore dei sensi
tutti; chiamatelo, ancora e sempre, il fiume che non scorre in alcun
dove, come un mare”) e celebrando gli alberi, che “sono mondi”,
iniziando con La
regione novembre
(“Più e più profondi, più e più sonori, gli alberi ondeggiano,
ondeggiano, ondeggiano”) per giungere a una sostanziale definizione
in Il mondo come
meditazione quando
scrive: “Gli alberi hanno l’aria di portare nomi tristi e star lì
a ripetere sempre la medesima cosa, come in tumulto, perché un
opposto, una contraddizione, li ha provocati e ora vogliono
replicare”. Se questa non l’arte di un pittore, di uno scultore o
di un fotografo, è, senza alcuna esitazione, il frutto
dell’insistenza con cui Wallace Stevens intende
sostituire all’idea di ispirazione, “l’idea di uno sforzo della
mente non dipendente dalle vicissitudini della sensibilità”. Nel
concedersi, il poeta dissimula anche l’ora del crepuscolo, prima
rievocando l’odissea di tutti gli uomini con La
vela di Ulisse (“Non
è questa la serenità di spirito del poeta. E’ la sorte che dimora
nella verità. Obbediamo le sollecitazioni del nostro fine”) poi,
quasi con un tono colloquiale, in L’uomo
malato, firmando un
toccante commiato: “Scegliendo da dentro di sé, da tutto ciò che
ha in sé, una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio,
le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette”.
Talmente poetico da confondere anche un rigoroso Frank Kermode che lo
definiva “un dottore incomparabilmente sottile, per non dire
angelico”, se non fosse che anche l’invenzione del paradiso,
secondo Wallace Stevens, coincide con l’imperfezione, per cui non
resta altro, come
diceva qualche
anno prima, nel 1941, che “seguire l’idea della nobiltà in ciò
che si potrebbe chiamare il disastro della realtà, in particolare la
realtà delle parole”. Normale, straordinario, assoluto.
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