Patrimonio è uno dei primi gradini che Philip Roth ha
affrontato nel ridisegnare l’età avanzata, quando la mortalità si manifesta
ineluttabile, come qualcosa di tangibile, ovvero diventa “la più brutale delle
realtà”. La decadenza fisiologica del corpo e dei tessuti, che sono martoriati
dal tempo e dagli eventi, sembra disgregare anche il rivestimento dei legami
che si rivelano fragili e instabili. Il decorso è parallelo, la sorpresa
diventa imbarazzo: più gli anni passano e più la famiglia si allarga, non tanto
nel senso del numero e della forma, quanto perché si aprono squarci nei
contorti rapporti degli adulti e “il più intimo intreccio della vita in comune
di due genitori, le difficoltà e le delusioni e le lunghe tensioni, rimane
misterioso”. Nella metamorfosi emergono e sono messi in rilievo i nodi che
avvicinano e/o allontanano le persone nell’ambito, quello famigliare, e in
particolare, visto che Philip Roth sta seguendo il dolorosissimo crepuscolo del
padre, diventa chiaro che “tutti i figli pagano un prezzo, e il perdono implica
perdono anche per il prezzo che hai pagato”. La percezione di Philip Roth è
lucida e ancora di più la sua traduzione nella scrittura: non usa gli aggettivi
a caso, anzi lo fa con parsimonia, e quando la rete famigliare si scioglie
insieme alla corruzione delle fibre davanti ai bambini, che ormai sono
diventati adulti, appare in tutta la sua chiarezza “l’abisso struggente tra i
nostri padri e noi”. In sé, è la
definizione perfetta di Patrimonio:
la descrizione delle sofferenze del padre (e poi delle sue), della vecchiaia e
della malattia che incombono con tutto il loro peso sull’animale morente è
lirica, estrema, straziante. Philip Roth è capace di raccontare la sua storia come quella dei suoi personaggi e dei suoi
romanzi, con la stessa coraggiosa vocazione a lasciarsi coinvolgere e con
quella scrittura minuziosa, millimetrica, acuta (cerebrale, nella migliore
accezione del termine) sensibilissima nel salvaguardare quello che si può,
magari giusto un po’ di nostalgia, visto che “forse eravamo gente comune, ma le
nostre relazioni non mancavano di grandeur”. Philip Roth scrive Patrimonio con devozione (filiale) perché, come sostiene il
padre, “se un uomo non è fatto di ricordi, è fatto di niente”, e lo fa senza
rinunciare a quella forza capace di “fare con le parole un buco nella testa di
qualcuno”. E’ un libro accorato e accurato: costruisce sulla cognizione del
dolore e della sofferenza un’intera memoria, più che una storia, senza esitare
davanti ai particolari più degradanti e sgradevoli. Può apparire persino
ossessivo e morboso nell’accanirsi sui dettagli clinici, dalle diagnosi sempre
un po’ empiriche alle incognite delle soluzioni chirurgiche, in cui si
distingue per le minuziose ricostruzioni, non è soltanto per lo scrupoloso lavoro
del narratore. E’ così perché “la battaglia è diversa per tutti e la battaglia
non finisce mai”, e poi bisogna dire che Philip Roth è sublime anche quando si merita,
in Patrimonio, di sguazzare in
mezzo alla merda.
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