Il
viaggio, andata e ritorno, da e per Butcher’s Crossing, cambia gli uomini che partono a caccia di bisonti e
alla fine sono costretti a vivere in simbiosi con l’essenza stessa della
wilderness. Arriveranno a nutrirsi (solo) di carne di bisonte, a vestirsi con
le pelli, persino ad abitarci dentro, dopo averne sterminato un’intera mandria
in una valle sperduta nelle montagne del Colorado. Resisteranno a tutte le
intemperie (o quasi), fino a quando non dovranno fare i conti con la tempesta
più imprevedibile, la legge del mercato, della domanda e dell’offerta,
trascinata dall’arrivo della ferrovia che sta trasformando per sempre
l’America. Siamo nel 1873 e
William Andrews arriva a Butcher’s Crossing con l’idea di verificare la bellezza e la crudeltà
della wilderness, nonché le leggende e i miraggi prodotti dalle corse verso il
West. Nell’organizzare la sua spedizione, assembla un quartetto che è
caratteristico nell’elencare le tipologie dei personaggi. Charley Hoge,
alcolizzato, ha perso una mano nel gelo di un’altra stagione di caccia, è un
credente devoto ed è il conducente dei carri nonché il cuoco, anche se il menù
prevede solo sempre carne secca, fagioli e caffè bollente. Fred Schneider, il
migliore macellaio di Butcher’s Crossing, è l’esperto riottoso e taciturno, che vorrà essere pagato con
puntualità, anche dove i soldi non valgono niente, ovvero nel bel mezzo di una
tormenta di neve. Miller, il cacciatore, è il leader che non si ferma davanti a
niente ed è persino visionario nel suo inseguire e cacciare i bisonti. Andrews
è il giovane intraprendente che vuole scoprire la verità sul West, sulla natura
e sulla vita, laggiù dove albergano “la santità che oscura le nostre religioni,
e la realtà che discredita i nostri eroi” come scrive Ralph Waldo Emerson, posto
in epigrafe insieme a Melville. Ad
Andrews “la natura gli si era presentata in modo così puro da esercitare i suoi
poteri d’attrazione con la forza necessaria per far breccia nella sua volontà,
nelle sue abitudini, nelle sue idee”. Il fascino si rivelerà un drammatico
abbaglio: la spedizione, trascinata dalla bramosia di Miller si risolverà in un
dramma perché cambiano le stagioni e i ruscelli diventano torrenti e i torrenti
diventano frontiere invalicabili, e non è finita perché, tornati a Butcher’s
Crossing, si ritroveranno in una
ghost town. Il racconto di John Williams è rigoroso, il linguaggio è
concentrato e “stick to the plan”, davvero aderente alla storia, inestricabile
dalla sua essenza americana perché come dice lo scorbutico Schneider “questo è
un paese molto grande e di sicuro non c’è proprio niente”. La supremazia della
wilderness, che vive i suoi tempi del tutto indifferente ai destini dei
viaggiatori, e l’avidità come unica stella polare vengono interpretate da John
Williams attraverso un grande romanzo, un affresco molto vicino alla realtà
storica e nello stesso tempo valido per ogni altra latitudine. Tambureggiante
dall’inizio alla fine Butcher’s Crossing è lirico, maestoso e spettacolare nel mostrare la prospettiva della
wilderness che incombe sugli uomini, sempre convinti di essere superiori,
sempre disperati nei loro fallimenti.
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