Il Kentucky Club è un capolinea
dell’umanità, un bar sul border che unisce e divide la stessa città spaccata in
due, El Paso e Juaréz. Chi ci arriva non deve soltanto varcare la frontiera,
nella notte, e andare come un rabdomante in cerca di qualcosa che non c’è più.
E’ costretto ad affrontare la realtà di un incubo in cui spariscono le persone,
le lingue, i riferimenti e persino una parvenza di civiltà. Le storie di
famiglie sgangherate, violenza e ancora violenza, solitudine, disperazione e
abbandono si susseguono e i personaggi non hanno in comune soltanto il ritrovo
notturno al Kentucky Club. I racconti si inanellano uno con l’altro e hanno
qualcosa in più di una costante aderenza, perché molti dei caratteri potrebbero
essere intercambiabili. Se Tutto inizia e finisce al Kentucky Club non è proprio un romanzo, non è difficile immaginare
una visione complessiva d’insieme che si traduce in un senso imminente e immane
di tragedia quale è il destino di una (due) città, “così caotica, violenta e
capricciosa, una città che bramava il sangue dai suoi stessi abitanti”. La
lettura e la letteratura in qualche modo sono una precaria via d’uscita, se non
proprio la salvezza per gran parte dei protagonisti, perché come ammette uno di
loro “a volte, leggere mi fa sentire vivo”, e così il Kentucky Club è una
specie di ultima spiaggia per tutta un’umanità a cui serve disperatamente un
briciolo d’amore per sopravvivere. Benjamin Alire Sáenz è uno scrittore che non
teme di frugare nella polvere, lo stile è essenziale, lascia spazio al lettore
per muoversi con lui e con i suoi personaggi nelle atmosfere notturne e
crepuscolari delle storie, che in realtà non sono poi così prive di speranza.
E’ anche una scrittura molto aspra, scorticata ed estrema. Il concentrato dei
racconti sembra favorire quel modello. I personaggi sono nello stesso tempo
designati con tagli netti, precisi, senza sbavature. Mantengono un’aura di
sfuggente bellezza, come se fossero provvisori, almeno quanto è provvisoria la
vita tra El Paso e Juaréz e il Kentucky Club, dove Benjamin Alire Sáenz ha
posto un punto fermo, una sorta di boa attorno a cui prima o poi ruotano tutte
le scialuppe di salvataggio malandate dei personaggi, solo che il mare lì fuori
è un deserto. Colonna sonora di Louis Armstrong, Billie Holiday, Miles Davis,
Ray Charles, Janis Joplin, i Beatles citati in A volte la pioggia e Joni Mitchell in Il gioco del dolore. Le loro note sottolineano le ferite tracciate dai
confini che dividono marito e moglie, figli e genitori o gli amanti separati dalla
vita, dalle storie, dalle parole dette come da quelle non dette. Un margine di
luce si intravede sempre, per quanto minimo e rarefatto, e il primo racconto di Tutto
inizia e finisce al Kentucky Club, una
delicata storia d’amore spazzata via da una forza oscura, invisibile, spietata
e inspiegabile offre una particolare chiave di lettura, valida anche per tutti
gli altri racconti, dove Benjamin Alire Sáenz scrive: “Se vivi al confine, puoi
innamorarti della tragedia senza per questo essere tragico a tua volta”.
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