lunedì 24 febbraio 2014

Cynthia Ozick

Nel tormentato rapporto di Cynthia Ozick con la scrittura, i racconti raccolti in Il rabbino pagano rappresentano un momento convinto e ispirato in cui è riuscita a sciogliere i nodi di un modello esigente e rigoroso con una visione coraggiosa e spigolosa. Da una parte, lo stile è raffinato, levigato fino all’ossessione. In uno scambio di battute di Virilità c’è tutta l’arguzia, e forse anche la sintesi, del suo modo di accostarsi alla lingua e ai suoi funambolismi. Dice Margaret, una delle protagoniste di Virilità: “Non si parla delle deformità”. “A meno che non si presentino in forma di poesia”, è la risposta che ottiene dalla stessa narratrice. Il rabbino pagano elenca una giusta selezione di una mezza dozzina di ipotesi di quella che Cynthia Ozick definisce “una dimensione ironica nello sguardo sugli esseri umani e le loro finzioni”. E’ così che intende la sua scrittura, associando leggende e realtà, con un tono che varia da racconto a racconto, anche se l’intenzione comune a tutti è “esplorare il lato più incline alla comprensione”, pur utilizzando sia gli elementi fantastici e leggendari di Il rabbino pagano e La strega dei docks sia quelli più concreti di La valigia e La moglie del dottore.  Ancora di più, è evidente, quando racconta l’esilio, ancora in Virilità: “E’ dura la vita e desolata in questo paese d’esilio: noi che vi abitiamo (i sopravvissuti, sarebbe meglio chiamarci, noi dell’undicesimo decennio) siamo così pochi, così mutilati, così poco affidabili riguardo alla cronologia recente e così in disaccordo con le vostre idee di grandezza, che di fatto tendiamo ad avere una mentalità distinta, e secondo logica ci spetterebbe una bandiera”. Una condizione che ispira la Gerusalemme descritta in La farfalla e il semaforo come “fenice tra le città”, che “ha una storia di storie”. Una possibile risposta si trova nel racconto centrale della raccolta, Invidia, ovvero lo yiddish in America, perché “dopo tutto c’era una ragione per vivere la vita che vivevano: altrove era peggio”. Anche in questa specifica occasione, Cynthia Ozick non rinuncia, proprio tra le pieghe di Invidia, ovvero lo yiddish in America, alla sua sottile e perfida vena autoironica: “Lo so che mi date della scribacchina, e mi va anche bene, sono quello che lei pensa, immaginazione zero, talento più no che sì (anch’io ai tempi volevo fare il poeta, ma questa è un’altra vita)”. Persino nelle sue divagazioni, tutto meno che casuali, Cynthia Ozick impone una particolare sensibilità  nell’accostarsi alle pagine, forte anche della sensazione che “oggi sono le stelle a decidere della fama, ai nostri tempi eravamo noi, ed eravamo noi a decretare le nostre stelle”. Il rabbino pagano è l’espressione migliore di quell’esigenza singolare, che parte dalla scrupolosa attenzione alla coerenza dei mondi letterari per arriva a una destinazione forse più ambiziosa, forse più realistica, come diceva la stessa Cynthia Ozick, “acquisire una visione partecipe nei confronti della vita, perché so che, come lettrice, non voglio leggere quello che scrivo”. 

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