Nel tormentato rapporto di Cynthia Ozick con la scrittura, i racconti raccolti in Il rabbino pagano rappresentano un momento convinto e ispirato in cui
è riuscita a sciogliere i nodi di un modello esigente e rigoroso con una
visione coraggiosa e spigolosa. Da una parte, lo stile è raffinato, levigato
fino all’ossessione. In uno scambio di battute di Virilità c’è tutta l’arguzia, e forse anche la sintesi, del
suo modo di accostarsi alla lingua e ai suoi funambolismi. Dice Margaret, una
delle protagoniste di Virilità:
“Non si parla delle deformità”. “A meno che non si presentino in forma di
poesia”, è la risposta che ottiene dalla stessa narratrice. Il
rabbino pagano elenca una giusta selezione
di una mezza dozzina di ipotesi di quella che Cynthia Ozick definisce “una
dimensione ironica nello sguardo sugli esseri umani e le loro finzioni”. E’
così che intende la sua scrittura, associando leggende e realtà, con un tono
che varia da racconto a racconto, anche se l’intenzione comune a tutti è
“esplorare il lato più incline alla comprensione”, pur utilizzando sia gli
elementi fantastici e leggendari di Il rabbino pagano e La strega dei docks sia quelli più concreti di La valigia e La moglie del dottore. Ancora
di più, è evidente, quando racconta l’esilio, ancora in Virilità: “E’ dura la vita e desolata in questo paese
d’esilio: noi che vi abitiamo (i sopravvissuti, sarebbe meglio chiamarci, noi
dell’undicesimo decennio) siamo così pochi, così mutilati, così poco affidabili
riguardo alla cronologia recente e così in disaccordo con le vostre idee di
grandezza, che di fatto tendiamo ad avere una mentalità distinta, e secondo
logica ci spetterebbe una bandiera”. Una condizione che ispira la Gerusalemme
descritta in La farfalla e il semaforo come “fenice tra le città”, che “ha una storia di storie”. Una
possibile risposta si trova nel racconto centrale della raccolta,
Invidia, ovvero lo yiddish in America,
perché “dopo tutto c’era una ragione per vivere la vita che vivevano: altrove
era peggio”. Anche in questa specifica occasione, Cynthia Ozick non rinuncia,
proprio tra le pieghe di Invidia, ovvero lo yiddish in America, alla sua sottile e perfida vena autoironica: “Lo so
che mi date della scribacchina, e mi va anche bene, sono quello che lei pensa,
immaginazione zero, talento più no che sì (anch’io ai tempi volevo fare il
poeta, ma questa è un’altra vita)”. Persino nelle sue divagazioni, tutto meno
che casuali, Cynthia Ozick impone una particolare sensibilità nell’accostarsi alle pagine, forte
anche della sensazione che “oggi sono le stelle a decidere della fama, ai
nostri tempi eravamo noi, ed eravamo noi a decretare le nostre stelle”. Il
rabbino pagano è l’espressione migliore di
quell’esigenza singolare, che parte dalla scrupolosa attenzione alla coerenza
dei mondi letterari per arriva a una destinazione forse più ambiziosa, forse
più realistica, come diceva la stessa Cynthia Ozick, “acquisire una visione
partecipe nei confronti della vita, perché so che, come lettrice, non voglio
leggere quello che scrivo”.
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