La costruzione di una
rock’n’roll star è un lavoro imponente, affascinante e soprattutto infinito. E’
una continua metamorfosi in cui il personaggio e l’essere umano giocano una
delicata partita psicologica complicata da una serie sterminata di variabili e
incognite che vanno dall’accordatura della chitarra alla qualità della stampa
dei dischi, dal costo dei biglietti dei concerti alle posizioni raggiunte nelle
classifiche. Non c’è niente di umano ed è ammirevole la dedizione con cui Bruce
Springsteen si è prestato a definire la sua idea
di rock’n’roll star, dedicandogli tutta la vita, professionale e non. E’ la
“totale applicazione” che racconta David Remnick nel suo Ritratto di Bruce
Springsteen e che ripercorre l’essenza della sua biografia (niente di
nuovo all’orizzonte) aggiornandola agli eventi più recenti e alternandola alla
cronaca delle fasi iniziali del tour di Wrecking Ball. David
Remnick ha un pass privilegiato perché accede a luoghi privati, così come a
dettagli dolorosi e scomodi e la sua versione del real world di Bruce
Springsteen è essenziale, precisa, coerente. L’approccio è po’ troppo
politically correct per essere convincente e in questo We Are Alive non si
discosta molto dalle altre biografie springsteeniane. Una riflessione
interessante può partire dalla critica di Leon Wieseltier, peraltro abbastanza
sgangherata, quando cercando di demolire Springsteen attraverso David Remnick
scrive che “il rock’n’roll dimostra che Herbert Marcuse aveva ragione. Non ci
sarà alcuna rivoluzione in America. Questa società continuerà a contenere le
sue contraddizioni senza risolverle, assorbirà l’opposizione e la ricompenserà,
trasformerà il dissenso in cultura e commercio. L’errore di Marcuse era credere
che fosse una cosa brutta. E’ una cosa bella, invece, perché ci risparmiamo gli
strazi delle purificazioni politiche”. L’asserzione, nell’essenza conservatrice
che esprime (nel senso più ampio del termine), ha una sua lucidità perché
dimostra di (non) aver capito le potenzialità del rock’n’roll, che sono rivoluzionarie
a livelli che il potere costituito non è mai riuscito a comprendere. Su questo
Bruce Springsteen alza una bandiera per niente arrendevole, facendosi carico
anche delle inevitabili ironie legate all’età con cui ancora calca i palchi per
ore e ore: “Tutto deve essere routine, responsabilità, decoro. Un mondo chiuso.
Ma la musica, quando è davvero buona, spalanca di nuovo la porta e ci fa
entrare la gente, la luce, l’aria, l’energia”. Allora, quel We Are Alive
stampato in copertina comincia ad avere un senso diverso: anche se Clarence
(Clemons) e Danny (Federici), e li chiamiamo per nome perché siamo parte in
causa, non ci sono più, anche se lo show con la E Street Band è diventato un
party sui generis, un po’ bring the family, un po’ festa di fine stagione,
suona comunque felice e liberatorio, come nient’altro. E alla fine il più
sincero è ancora lui, Bruce Springsteen, quando dice che “è tutto teatro”, ed è
meglio così perché della realtà ne abbiamo abbastanza.
Mi hai convinto, lo devo prendere...
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