mercoledì 22 giugno 2022

Aldo Leopold

Il leitmotiv dei saggi raccolti in Tutto ciò che è libero e selvaggio ruota attorno all’arte e all’etica della conservazione ambientale intesa come “un rapporto armonioso tra uomo e terra. Siamo in presenza di conservazione ambientale quando la terra dà buoni frutti e il proprietario terriero se ne prende cura, quando entrambi prolificano in virtù di questa cooperazione. Se, invece, una delle due parti si impoverisce, la conservazione viene meno”. Come è nel suo stile, Aldo Leopold suggerisce alcuni esempi, dalla perdita degli stagni nelle fattorie alla ridenominazione delle catene alimentari in “flussi biotici”, alternando esperienze personali a valutazioni e approfondimenti più specifici,  fino a definire “la successione ecologica” come “l’evoluzione di un ecosistema, dovuta all’avvicendamento nella stessa area di diverse comunità in relazione alla modificazione dell’ambiente fisico, causata a sua volta dall’azione degli organismi. Il processo di successione tende al raggiungimento di un ecosistema stabile, o climax, dove sia massima l’omeostasi, cioè la capacità del sistema di assorbire le perturbazioni esterne (naturali o indotte dall’uomo) mantenendo integra la propria struttura”. La relazione tra esseri umani e natura dipende proprio dall’aderenza a un’idea di conservazione che significa “favorire il corretto funzionamento delle proprie risorse ed evitarne l’abuso, poiché esse potrebbero deteriorarsi ancora prima d’esaurirsi, e talvolta quando ancora sono presenti in abbondanza”. Altrove Aldo Leopold la chiama anche “un utile e positivo esercizio di abilità e intuizione anziché una pratica, negativa, di astinenza e cautela”. Questo dipende dal fatto, come ha modo di ripetere tra un saggio e l’altro, che “la terra è un unico, grande organismo” e “il mondo brulica di animali, processi ed eventi che cercano di sfuggirci”. Qui s’inseriscono componenti che hanno aspetti complessi, che vanno oltre l’utilità specifica dello sfruttamento della terra. Ci sono valori in Tutto ciò che è libero e selvaggio che dipendono dall’osservazione, dalla comprensione, dalla considerazione della natura in un contesto simbiotico, come scriveva Rachel Carson in Brevi lezioni di meraviglia: “È per noi una cosa salutare e necessaria il volgerci di nuovo alla terra e nella contemplazione delle sue bellezze conoscere la meraviglia e l’umiltà”. Se “la stabilità dei meccanismi” che governano la terra resta imperscrutabile, non di meno “il criterio collettivo che definisce un buon uso della terra dev’essere qualcosa di molto più profondo e importante del profitto o della resa”. Questo è un principio fondamentale da cui discende un’ulteriore e definitiva precisazione di Aldo Leopold che, a distanza di anni, suona piuttosto come un’avvertenza, se non proprio un ultimatum: “Quando gli aspetti pratici vengono separati da quelli estetici, i quali diventano prerogativa di istituzioni ad hoc o dello Stato, le conseguenze non solo sono letali in termini di progresso sociale, ma stanno logorando le basi su cui poggia la stessa struttura della società. L’inganno trae origine da un concezione imperfetta di crescita. Tutte le scienze, le arti e le filosofie sono delle linee convergenti; quel che oggi appare separato, domani sarà unito e collegato. Un giorno, forse, scopriremo che nessuna terra mutilata sarà di nostra utilità (se ne esisteranno ancora, di terre intatte)”. Ecologia allo stato puro.

domenica 5 giugno 2022

Ursula K. Le Guin

Con nonchalance, Ursula K. Le Guin mette in discussione il citatissimo assunto dell’incipit di Anna Karenina rileggendo il senso delle parole di Tolstoj, e l’effetto finale è sorprendente. Non solo: riesce a descrivere la menopausa con un florilegio di prospettive tali da maturare il sospetto che potrebbe scrivere di qualsiasi argomento e renderlo comunque affascinante. Questo perché la visione di Ursula K. Le Guin è una prova di forza, un’interpretazione originale che tende a schivare gli schematismi e le riduzioni. Vale prima di tutto per la fantascienza e il fantastico con la convinzione inamovibile che “chi si occupa di fantastico, che utilizzi gli antichi archetipi del mito e della leggenda o quelli più moderni della scienza e della tecnologia, potrebbe discettare, con la stessa serietà e in maniera molto più diretta di chi si occupa di sociologia, della natura umana per come è vissuta, per come potrebbe essere vissuta e per come dovrebbe essere vissuta. Perché in fondo, come hanno affermato le grandi menti scientifiche, e come tutti i bambini e le bambine sanno, è soprattutto grazie all’immaginazione che acquisiamo percezione, compassione e speranza”. Ma nei saggi radunati in I sogni si spiegano da soli c’è una costante nelle rivendicazioni di Ursula K. Le Guin, una dimensione a cui non vuole rinunciare: quella di osservatrice, di donna, di madre, tutte parti di un intero che trova sbocco nella scrittura. Chiara, precisa, fluida ed essenziale, Ursula K. Le Guin è convincente senza particolari sforzi ed è nella natura del suo stile risultare nitida ed efficace, partendo da una base solidissima, così dichiarata: “Invece della ricerca di equilibrio e integrazione, lottiamo per il dominio. Rafforziamo le divisioni e neghiamo l’interdipendenza. Il dualismo di valore che ci distrugge, il dualismo superiore/inferiore, dominante/dominato, possessore/posseduto, sfruttatore/sfruttato potrebbe cedere il passo a quella che mi appare, da qui, una modalità di integrazione e integrità molto più salutare, sensata e allettante”. Di questioni delicate, Ursula K. Le Guin ne tocca molte, dall’ambito specifico della fantascienza (“Una delle funzioni essenziali della fantascienza per me è proprio questa modalità di porre domande: il contrario del modo usuale in cui pensiamo, metafore per qualcosa che il nostro linguaggio non sa ancora denominare, esperimenti immaginativi”) alle modalità di sopravvivenza (o meno) delle scrittrici, dal rapporto con le mode all’insegnamento, dalla lettura (“Leggere implica una collaborazione silenziosa tra chi legge e chi scrive”) alla natura dei romanzi (“Nel leggere un romanzo, qualunque romanzo, dobbiamo avere ben chiaro che tutta quella roba non ha senso e poi, leggendo, dobbiamo credere a ogni parola. E una volta finito potremmo scoprire, se si tratta di un buon romanzo, che siamo un po’ diversi da come eravamo prima di leggerlo, che siamo stati un po’ cambiati, come se avessimo incontrato un viso nuovo o attraversato una strada che non avevamo attraversato prima. Ma è molto difficile dire esattamente cosa abbiamo imparato, come siamo stati cambiati”). Alcuni capitoli vivono di vita propria, come quello che offre un punto di vista definitivo sulla frontiera, una lucida visione dell’America e della sua espansione (“Vivere in un mondo che ha valore solo in quanto conquista, in un modo che è una frontiera in costante espansione senza un valore proprio, una pienezza propria, significa vivere rischiando di perdere ciò che ha valore per noi. È in quel momento che cominciamo a sentire le voci dall’altra parte, e a porci domande sul fallimento e l’oscurità”). Lo stesso vale quando affronta l’utopia, la California, le esplorazioni antartiche. Attraverso questi saggi si vede la persona dentro l’autrice, si scoprono esseri umani dietro gli Eroi e dietro i personaggi. Le opinioni sono espresse con chiarezza, precisione, acume e quel pizzico di ironia che rende meno complicato l’inoltrarsi in argomenti spinosi, compreso l’avanzare dell’età nel capitolo Corpo vecchio, zero scrittura. Il punto di vista femminile e femminista è ribadito e vale per tutto La figlia della pescatrice, che attraversa i romanzi di Louisa May Alcott, Virginia Woolf, Margaret Drabble per arrivare a dire che “si diventa un po’ fanciulleschi e irresponsabili se ti viene data la libertà di creare un mondo dal nulla assoluto (Il potere corrompe)”. L’asserzione è ambivalente e altrove Ursula K. Le Guin la completa con una visione di rara lucidità: “Forse abbiamo avuto fin troppe parole del potere e discorsi sulla vita come battaglia. Forse quello che ci manca sono le parole della debolezza”. Un bel patrimonio, da custodire con grande attenzione.

lunedì 30 maggio 2022

Timothy Findley

Quando parte per “la guerra che doveva porre fine a tutte le guerre”, il destino di Robert Ross viene stravolto per sempre. Siamo nel 1915 e già il viaggio dal Canada verso l’Europa è un incubo claustrofobico in una nave zeppa di uomini e cavalli in balia delle onde, ma ad attenderlo ci sono luoghi che rispondono al nome di Ypres e Verdun, un mare di fango, un sudario di morte e una follia diffusa. Figlio di una famiglia di industriali, Robert Ross si arruola con le migliori intenzioni, credendo nella retorica dell’eroismo, del valore e del protagonismo nel difendere la civiltà, sostenendo che “quello che conta è non cercare di trovare delle scuse per il proprio comportamento, non cercare rifugio nella tragedia, ma chiarire chi sei attraverso il modo in cui hai risposto al tuo tempo”. La convinzione che “le persone si possono trovare solo nelle loro azioni” si scontra ben presto con la brutale realtà della vita in trincea e con l’apparizione di armi spietate. I gas, i lanciafiamme, gli aerei conducono Timothy Findley a suggerire le contraddizioni implicite a ogni evento bellico, sostenendo che: “A: gli uomini non avrebbero mai fatto certe cose; B: non sarebbero stati in grado di farle. Poi le fecero”. Non c’è posto per la tragica elegia dei guerrieri cantata da Wilfred Owen o Siegfrid Sassoon: Robert Ross è testimone oculare del disfacimento di ogni sensibilità che macina corpi dopo corpi, non solo togliendogli la vita, ma anche un senso. Ferito a sua volta, viene ricoverato in una bucolica magione inglese, a St Aubyn, “un mondo antico, confortevole e sicuro, definito da secoli di un procedere flemmatico”. La vita in ospedale lo riconduce a riflettere sulla repentina mutazione che l’ha visto protagonista insieme ai suoi commilitoni, arrivando alla conclusione che “probabilmente in guerra sì è tutti strani. La normalità è una chimera”. A quel punto il racconto si estende ai legami famigliari troncati dagli eventi bellici e a quelli, imprevisti e fragili, che sorgono sul campo. Se è vero che “gli abitanti della memoria vanno protetti dagli estranei”, l’ottica di Timothy Findley non è mai univoca: si divide tra voci, ricordi, impressioni e altre percezioni, distribuite secondo un ordine non del tutto lineare (anzi) che spesso spiazza e disorienta perché sono “i frammenti di un’intera epoca”, quelli in cui si riflette la storia di Robert Ross. Come se fosse davanti a uno specchio infranto per sempre, deve ammettere che “alla fine gli unici fatti che hai sono quelli di dominio pubblico, e di questi ne fai ciò che puoi, sapendo che una cosa conduce a un’altra. A volte qualcuno dimentica se stesso e parla troppo, altre basta l’angolo di una fotografia per rivelare tutto”. La desolazione viene assorbita come un virus feroce e inarrestabile, la resa si manifesta negli odori, nei gesti, nella fatica, nei disperati tentativi di restare a galla, cercando di aggrapparsi a un singolo momento, ormai lontanissimo e irrimediabilmente perduto: “Quelli come voi, nati dopo, non sapranno mai che cosa significava dormire in città sulle quali cadeva silenziosa la neve, quando tutto ciò che si udiva nella notte erano i cani che abbaiavano contro treni che correvano lontani, lungo scorciatoie che fendevano i sogni senza svegliare nessuno. Fu la guerra a cambiare tutto questo. Proprio così. La grande guerra per la civiltà cambiò il sonno”. L’ultimo, accorato appello, nel cupo e tumultuoso finale, recita: “Spero soltanto una cosa: che ricordino che eravamo esseri umani”. Ha l’amarissimo sapore di una sentenza e, insieme, di un avvertimento, ancora attuale, a distanza di un secolo, purtroppo.

lunedì 23 maggio 2022

Ernest J. Gaines

All’indomani della fine della guerra civile americana, una bambina fugge, portandosi dietro un pargolo ancora più piccolo, Ned. Come tanti vorrebbe lasciare il Sud per il Nord, ma non sa dove andare. Nel suo viaggio, Miss Jane è al centro di un vortice di sentimenti contrastanti, che collidono ed esplodono in brutali episodi di violenza. Una serie di gironi infernali dove la condizione degli afroamericani, dai saccheggi dei sudisti e poi degli yankee, perché la guerra non fa differenza, dalla povertà, dalle persecuzioni alla fame, dallo sfruttamento alla diaspora alla segregazione, si dipana lungo le memorie di una donna a cavallo di due secoli. L’autobiografia di Miss Jane Pittman è una sequenza ininterrotta di atrocità dove la sofferenza è endemica, come lascito della schiavitù, e le memorie di Jane Pittman la raccontano senza alcun filtro, proprio come illustrano la vita lungo il fiume e nelle piantagioni. È “il marchio della paura” che resta anche dopo la fine delle ostilità, una fragilità spiegata così da Miss Pittman: “Le persone di colore scrivevano lettere a Washington, a volte certi gruppi si arrabbiavano abbastanza da andarci di persona, ma le truppe non tornarono mai. Gli affari per gli yankee invece arrivarono, e arrivarono i soldi degli yankee per aiutare il Sud a rimettersi in piedi, oh sì; ma niente truppe yankee. Fummo lasciati lì a cercare di sopravvivere”. I martiri sono tanti: Miss Pittman ricorda l’omicidio di Ned che, una volta cresciuto è diventato un insegnante o la storia del governatore Huey P. Long per cui ci si domanda: “Per quale motivo pensano che i ricchi abbiano ucciso Long? Perché ha chiamato negri le persone di colore? Lo hanno ucciso perché ha aiutato i poveri, i poveri neri e i poveri bianchi. Perché i poveri non dovevano essere aiutati, per questo lo hanno ucciso. Il povero deve lavorare. Il povero deve partecipare alle vostre guerre e poi morire. Ma il povero non deve essere aiutato”. L’autobiografia di Miss Jane Pittman è un ibrido compresso tra un romanzo, un memoriale e un’estrema testimonianza civile: la scrittura è spessa come cuoio e fitta come i canneti delle paludi in cui si nascondono i fuggitivi, ma ha una forza ipnotica. Detto questo, Ernest J. Gaines non si sostituisce a Miss Pittman, anzi: passo dopo passo, le offre piuttosto una voce concreta, capace di stare sempre al centro del racconto, come un magnete, e di espandersi nel professare ogni modo per difendere la dignità, dalla fede al cibo, dall’istruzione al lavoro, dagli inni fino al territorio in cui succede tutto. Il paesaggio, maestoso e terrificante, diventa vivo nelle descrizioni di Miss Pittman: “Un fosso non è niente, nemmeno un bayou è niente. Ma fiumi e alberi sono un’altra cosa, a meno che, ovviamente, non si tratti di un albero del rosario. Chiunque venga sorpreso a parlare con un albero del rosario o con un biancospino deve essere pazzo. Ma quando parli con una quercia che abita qui da tutti questi anni e sa più di quanto tu possa mai sapere, non è follia; è solo un segno di rispetto verso qualcosa che è nobile”. All’alba della storica inondazione in Louisiana del 1927, diventa chiaro a Miss Pittman, così come a Ernest J. Gaines, che “non era il giorno del giudizio. L’uomo si era semplicemente spinto un po’ troppo in là”, e si capisce che non vale soltanto per i fenomeni naturali.