La vita non scorre mai tranquilla
lungo il fiume. Siamo nei dintorni del 1929 e la crisi economica serpeggia
spietata nella provincia americana: non basta un umile lavoro a mantenere una
famiglia con due figli ed è allora che Ben Harper decide di andare a prendere i
soldi con una pistola. La rapina, solitaria e disperata, finisce in un disastro
con due persone ammazzate, lui viene catturato in riva al fiume e condannato a
morte, ma diecimila dollari sono spariti da qualche parte. Senza Ben Harper,
Willa (la moglie e la madre di John e Pearl) deve andare a lavorare nella
pasticceria di Walter e Icey Spoon. La vita diventa ancora più povera,
delimitata e scandita dalle stagioni e dalle incombenze naturali: un temporale
può dire molto, anche annunciare l’arrivo di un uomo misterioso, affascinante.
Si chiama Harry Powell ed è un predicatore con le nocche tatuate: da una parte
ha inciso sulla pelle “odio” e dall’altra, “amore”. La sua figura imponente si
staglia subito nella terra desolata genera e ne evidenzia i limiti e i
contrasti. Per quanto accompagnato da molti contorni oscuri, è anche
un’opportunità. Per una donna con due figli da mantenere nelle profondità
dell’America, un uomo e di conseguenza un marito, è più che necessario, se
vuole vivere una vita onesta. Sostenuto dai benpensanti, Harry Powell potrebbe
e dovrebbe essere la persona giusta per Willa, e invece è soltanto lì per
interpretare un ruolo che può condurlo alla refurtiva. Il suo segreto è che in
carcere condivideva la stessa cella con Ben Harper, prima che fosse impiccato,
e da lui ha intuito l’esistenza del malloppo, nascosto da qualche parte, laggiù
lungo il fiume. Harry Powell mente, ma anche chi è sincero, a partire da Willa,
contribuisce a generare un substrato di ambiguità, che è poi il clima in cui il
predicatore opera e si muove a suo agio. Un dilemma che è riassunto così: “Non
è vero niente perché qui sta succedendo qualcosa che non capisco ma dobbiamo
giocarcela fino in fondo finché le cose non si chiariscono”. La trama si annoda
proprio intorno all’incedere dei contrasti, al sovrapporsi delle ombre che
seguono il predicatore stesso e si propagano su tutti gli altri. L’inganno
rimane nascosto e la costruzione del romanzo è una bomba a orologeria: Harry
Powell insinua nella famiglia di Ben Harper come un virus. Nemmeno i bambini
sono esenti dal fascino, anche se qualche margine di dubbio l’hanno sempre
perché dal loro punto di vista “non sai mai che ti raccontano. E non scopri mai
se le cose sono vere oppure no”. Quello che colpisce, anche a più di mezzo
secolo di distanza, non è tanto la ricostruzione del predicatore come un
ciarlatano, un truffatore, un killer pronto a tutto (e comunque, un grande
personaggio), piuttosto la spessa sedimentazione di linguaggi, dalle
filastrocche alle canzoni popolari, dai passaggi biblici al dialetto delle
chiacchiere provinciali. Davis Grubb li riassume in una rappresentazione
vivida, aspra, intensa che ha reso La morte corre sul fiume un classico. Con uno spunto chiaroveggente, poi, perché la città sullo sfondo,
guarda caso, si chiama New Economy.
venerdì 30 gennaio 2015
martedì 27 gennaio 2015
Joyce Carol Oates
La
nota più curiosa è in appendice alla sua colta disgressione Sulla boxe dove Joyce Carol Oates afferma che “il sentimento
amoroso è probabilmente l’essenza di ciò per cui io scrivo”. Si tratta di una
“emozione eterna e insondabile” che ha ben poco da condividere con la boxe, ma
Joyce Carol Oates ha il privilegio di tutti i grandi scrittori, che sono capaci
di scrivere di qualsiasi cosa come se fosse una loro creazione. La boxe è un
argomento specifico e circoscritto e vantando anche una nutrita tradizione
letteraria, da Jack London a Ernest Hemingway, e ha buon gioco
nell’interpretarne le diverse sfumature, legandole alla sua personale
collocazione, la cui origine risale all’infanzia, quando il padre la portava a
vedere gli incontri. Da lì Joyce Carol Oates racconta la boxe come uno sport, e
più di uno sport. La sua analisi storica risale fino all’antica Roma e alle
origini greche del pugilato perché “in ogni modo, la rabbia è la reazione
adeguata a certi fatti irremovibili della vita, non un maleficio immotivato
come nella tragedia classica, bensì un impulso pienamente motivato che trova
molte delle sue radici nella società. L’impotenza prende forme diverse, fra
queste il noncurante dispendio fisico di potenza fisica”. Coinvolta dalle figure
prestanti dei boxeur, dalle loro vite drammatiche, non fa niente per
dissimulare la sua ammirazione e nello stesso modo non le sfugge la natura
intrinseca dei combattimenti visto che
“accade così che più una società è ricca e avanzata, più l’interesse per
determinati sport diventi fanatico. La traiettoria delle civiltà deve
ripiegarsi su se stessa (naturalmente? Inevitabilmente?) come il serpente
mitico che si morde la coda, in un ritorno di passione per le manifestazioni e
i gesti di ferocia. Se è plausibile
che uomini e donne spenti nelle emozioni possano aver bisogno, per
risvegliarle, di esperienze sempre più estreme, allora è plausibile anche che
il desiderio non sia solo di imitare, ma di essere, come per magia, brutali,
primitivi, istintivi e perciò innocenti”. L’analisi è competente e profonda e
la boxe come metafora della vita non s’incastra sempre perché “la pretesa della
boxe è di essere superiore alla vita, in quanto idealmente superiore a ogni
casualità” e d’altra parte “la vita è
come la boxe in molti particolari inquietanti. Ma la boxe è soltanto come la
boxe”. L’indecisione del giudizio finale di Joyce Carol Oates Sulla boxe è contraddittoria solo in apparenza perché è troppo
raffinata ed evoluta nell’esprimere un’idea di pugilato che “pare contenere
un’immagine della vita così completa e potente, la bellezza della vita, la
vulnerabilità, la disperazione, il coraggio inestimabile e spesso
autodistruttivo, che è davvero
vita, nient’affatto gioco”. Questo è solo il primo gradino per salire sul ring
e capire la boxe, e comprendere davvero il suo valore, perché poi “limitarsi a
suggerire che gli uomini potrebbero amarsi e rispettarsi l’un l’altro
direttamente, senza il violento rituale del combattimento, significherebbe
fraintendere la più grande passione degli uomini, la guerra, non la pace.
L’amore, se amore ci deve essere, viene dopo”. Un piccolo saggio, un’utile
riflessione.
venerdì 23 gennaio 2015
Spalding Gray
Ironia,
arguzia, linguaggio sintetico e nello stesso tempo tagliente, visioni e
immagini immediate, precise, spesso crudeli. Attore teatrale, interprete di
diversi film (tra cui Urla del silenzio e True Stories),
scrittore (persino un romanzo, nel curriculum) Spalding Gray era conosciuto
soprattutto per i suoi show solitari. Gran parte dei suoi monologhi, deliri che
sembrano un perfetto incrocio tra la vena caustica di Lenny Bruce e
l’introspezione surreale di Woody Allen, hanno trovato posto in Sesso e morte
fino a 14 anni e il personaggio è di
quelli che meritano attenzione perchè capace di battute al vetriolo (“Ora, chi
sono i santi nel mondo occidentale? Attori e attrici. Sono gli unici che
possono dire di non sapere chi sono senza che li chiudano in manicomio”) e di
creare una storia tutto intorno “dove si distinguono ancora compassione,
dubbio, invidia, affetto fraterno, ambivalenza, tutte le sfumature del discorso
umano”. Come faccia a tenere insieme tutto lo si vede in A nuoto in Cambogia: resoconto trasversale della sua partecipazione a Urla
del silenzio, dal casuale, o quasi,
ingaggio al set nella giungla fino alla conclusione del film. Spalding Gray ha
occasione di sproloquiare un po’ su tutto ma i temi centrali rimangono la
guerra e il mondo dell'informazione o, meglio, Hollywood. Due realtà nemmeno
tanto distanti tra loro, che Spalding Gray sposa così: “Guerroterapia. Tutti i
paesi dovrebbero fare un grosso film di guerra all’anno. Darebbe lavoro a un
sacco di gente, li aiuterebbe a godere. E quando atterri in quella giungla,
altro che immedesimarti! Quando le pale dell’elicottero ti fischiano sulla
testa, urli per farti sentire”. Le immagini di Urla del silenzio si susseguono, i set vengono montati, smontati,
rimontati e aragosta fresca attraversa tutti i giorni un intero emisfero (dal
Maine all’Indocina) per essere servita alla troupe, insieme a marijuana e
alcol. E’ un clima da festa mobile, ma nell’aria si respira il dramma della
Cambogia, come intuisce James Leverett nell’introduzione: “Un piccolo paese di
gente amabile, paradiso innocente, spinto alla frenesia del genocidio da Mao,
Rosseau e i B-52. Ma bastano sangue finto e interiora di pollo a rendere
accettabili quei cittadini trucidati o comparse che siano? Villaggi in fiamme o
pneumatici in fiamme disposti dai tecnici per gli effetti speciali? Siamo nella
storia o sul set?”. Spalding Gray non risponde alla domanda, perché è troppo
intelligente per lasciarsi ingannare: la sua raffinata ironia comincia già
nelle prime pagine quando dice che “il prodotto finito è il risultato di una
serie di errori organici, creativi, la percezione stessa funge da editor della
redazione definitiva”. In A nuoto in Cambogia dissemina piuttosto tante possibili soluzioni, a
partire da una riconversione del linguaggio e, in via del tutto particolare,
dell’umorismo. E, ricostruendo quello che lui chiama un “film interiore”,
Spalding Gray mette in scena un’umanità varia e confusa e una parodia di quella
società che non riesce più a distinguere la realtà dal gioco perverso delle
illusioni sceniche.
martedì 20 gennaio 2015
Philip Roth
Patrimonio è uno dei primi gradini che Philip Roth ha
affrontato nel ridisegnare l’età avanzata, quando la mortalità si manifesta
ineluttabile, come qualcosa di tangibile, ovvero diventa “la più brutale delle
realtà”. La decadenza fisiologica del corpo e dei tessuti, che sono martoriati
dal tempo e dagli eventi, sembra disgregare anche il rivestimento dei legami
che si rivelano fragili e instabili. Il decorso è parallelo, la sorpresa
diventa imbarazzo: più gli anni passano e più la famiglia si allarga, non tanto
nel senso del numero e della forma, quanto perché si aprono squarci nei
contorti rapporti degli adulti e “il più intimo intreccio della vita in comune
di due genitori, le difficoltà e le delusioni e le lunghe tensioni, rimane
misterioso”. Nella metamorfosi emergono e sono messi in rilievo i nodi che
avvicinano e/o allontanano le persone nell’ambito, quello famigliare, e in
particolare, visto che Philip Roth sta seguendo il dolorosissimo crepuscolo del
padre, diventa chiaro che “tutti i figli pagano un prezzo, e il perdono implica
perdono anche per il prezzo che hai pagato”. La percezione di Philip Roth è
lucida e ancora di più la sua traduzione nella scrittura: non usa gli aggettivi
a caso, anzi lo fa con parsimonia, e quando la rete famigliare si scioglie
insieme alla corruzione delle fibre davanti ai bambini, che ormai sono
diventati adulti, appare in tutta la sua chiarezza “l’abisso struggente tra i
nostri padri e noi”. In sé, è la
definizione perfetta di Patrimonio:
la descrizione delle sofferenze del padre (e poi delle sue), della vecchiaia e
della malattia che incombono con tutto il loro peso sull’animale morente è
lirica, estrema, straziante. Philip Roth è capace di raccontare la sua storia come quella dei suoi personaggi e dei suoi
romanzi, con la stessa coraggiosa vocazione a lasciarsi coinvolgere e con
quella scrittura minuziosa, millimetrica, acuta (cerebrale, nella migliore
accezione del termine) sensibilissima nel salvaguardare quello che si può,
magari giusto un po’ di nostalgia, visto che “forse eravamo gente comune, ma le
nostre relazioni non mancavano di grandeur”. Philip Roth scrive Patrimonio con devozione (filiale) perché, come sostiene il
padre, “se un uomo non è fatto di ricordi, è fatto di niente”, e lo fa senza
rinunciare a quella forza capace di “fare con le parole un buco nella testa di
qualcuno”. E’ un libro accorato e accurato: costruisce sulla cognizione del
dolore e della sofferenza un’intera memoria, più che una storia, senza esitare
davanti ai particolari più degradanti e sgradevoli. Può apparire persino
ossessivo e morboso nell’accanirsi sui dettagli clinici, dalle diagnosi sempre
un po’ empiriche alle incognite delle soluzioni chirurgiche, in cui si
distingue per le minuziose ricostruzioni, non è soltanto per lo scrupoloso lavoro
del narratore. E’ così perché “la battaglia è diversa per tutti e la battaglia
non finisce mai”, e poi bisogna dire che Philip Roth è sublime anche quando si merita,
in Patrimonio, di sguazzare in
mezzo alla merda.
Iscriviti a:
Post (Atom)