Nel ricostruire un’identità
credibile della musica folk americana attraverso i Basement Tapes di Bob Dylan,
Greil Marcus traccia anche un ritratto avvincente di una nazione, quella repubblica
invisibile che soltanto le canzoni, i
songwriter e gli storyteller sanno raccontare. O come meglio spiega lo stesso
Greil Marcus all’inizio di La repubblica invisibile: “un’America aperta alla domanda di chi e che cosa
gli americani sarebbero potuti diventare e non da chi e che cosa provenivano. I
meccanismi del tempo, nella musica, non sono consolanti. In quella cantina il
passato è vivo nella misura in cui il futuro è aperto, e ciò accade solo quando
si è portati a credere che il paese sia incompleto o addirittura ancora da fare:
quando il futuro è precluso, il passato è morto. Ancora più misterioso è il
modo in cui il futuro dipende dal passato”. Non è soltanto l'ambito di un disco
fondamentale per il rock'n'roll, The Basement Tapes, quello che scandaglia Greil Marcus, ma tutto il
background culturale ed umano che gli sta dietro, davanti, sopra e sotto. E’
l’America stessa, o quello che scorre nelle sue vene, per dirla con William
Carlos Williams, la protagonista in La repubblica invisibile, un mondo che solo Bob Dylan poteva portare alla
luce con The Basement Tapes e che
forse soltanto Greil Marcus poteva cogliere così bene. In uno degli anni più
caotici che la recente storia dell'umanità ricordi, il 1967, Bob Dylan e cioè
il cantante, il profeta, il simbolo di un’intera generazione, e poi di molte
altre negli anni a venire, la voce della protesta, il poeta per eccellenza e
così via, si ritira tra i boschi di Woodstock e con gli Hawks (che poi
diventeranno la Band) passa le giornate a suonare in cantina. Atmosfera
surreale, felliniana, caotica e scelta in gran parte incomprensibile, ma con
una sua logica, come scrive Greil Marcus nell’epilogo di La
repubblica invisibile: “Quando Dylan,
Robbie Robertson, Garth Hudson, Richard Manuel, Rick Danko e Levon Helm
sparirono dalla faccia del pianeta pop, divenne ancora una volta chiaro come, a
volte, è solo la maschera della distanza, dello scomparire, che ti consente di
parlare, che di dà la libertà di dire ciò che pensi senza dover immediatamente
mettere in gioco la tua vita a ogni tua parola”. In quel luogo e in quello
spazio temporale, Bob Dylan e la Band suonarono ogni sorta di canzone: l’enorme
bagaglio della musica popolare americana venne rivisitato in un sorta di
caotico laboratorio, con Bob Dylan in versione di catalizzatore. Attraverso i Basement
Tapes, Greil Marcus ha tracciato una mappa
di quella repubblica invisibile che è l’America cantata. Un lavoro che offre
uno spettro minuzioso, quasi ossessivo, ad un campo di indagine di proporzioni
immani: tutte le radici della musica popolare americana, i suoi caratteri, le
sue storie, i suoi personaggi vengono ricostruiti sotto la lente di
ingrandimento di Greil Marcus che riesce nello scopo di rendere avvincente un
frammento di storia limitato nel tempo (cioè i Basement Tapes) ma esteso all’infinito (o quasi) nella memoria.
domenica 30 dicembre 2012
sabato 29 dicembre 2012
Jack Kerouac
Jack
Kerouac è un nome che, dal punto di vista letterario, rimanda sempre a lunghe,
infinite e ipersensibili frasi, buttate giù ispirandosi agli ormai famosi
fraseggi di Charlie Parker o Sonny Rollins. L’immagine, nota per i suoi
romanzi, è quella prosaica di uno scrittore che non riesce a staccarsi dalla
pagina e dalle sue parole. Visione ormai un po’ consunta di Jack Kerouac che
non era solo un documentarista esistenziale e autobiografo, ma un autore
completo, capace di destreggiarsi attraverso prosa e poesia e, soprattutto,
all’interno di un bagaglio culturale onnivoro e apparentemente confusionario,
ma cosmopolita e magnetico. Aiuta a vederlo in questa prospettiva Il libro
dei blues, raccolta di
poesia in forma di appunti (o viceversa): non tutto il materiale è inedito
perché parecchie delle liriche derivano da pubblicazioni datate e dai reading
che si possono ascoltare, dal vivo, attraverso The Beat Generation (un bellissimo cofanetto discografico
che raccoglie il meglio della produzione beat e dintorni: oltre a Kerouac, tra
gli altri ci sono Allen Ginsberg, Lenny Bruce e Tom Waits), ma tutte le poesie
valgono per il lavoro che Jack Kerouac ha compiuto sulla forma e sul
linguaggio, diametralmente opposto rispetto a quello utilizzato per i lavori in
prosa. Le liriche raccolte in Il libro dei blues mostrano un Jack Kerouac convinto,
contento, spumeggiante e out of control, a suo agio nella dimensione poetica e
musicale che si adatta su misura alle sue visioni non meno che al suo istinto.
Si tratta di blues nell’accezione più generica del termine perché in realtà Il
libro dei blues è
composto da haiku, frammenti di sogni e di immagini raccolte dall’osservazione
e dalla sensibilità di Jack Kerouac, come spiega lui stesso nella scarna e
illuminante introduzione: “Nel mio sistema, la forma del chorus del blues è
limitata dalla misura delle pagine del notes da taschino su cui li ho scritti,
perciò a volte il senso delle parole può, o no, proseguire da un chorus
all'altro, proprio come il senso della frase musicale nel jazz può, o no,
estendersi armonicamente da un chorus all'altro”. E allora Jack Kerouac si deve
limitare a lasciarsi impressionare da quello che vede e sente, prendendo
appunti su appunti e limando, tagliando, cucendo sfodera versi a tratti
deliranti, a tratti geniali, sempre e comunque ispirati ad una vita senza
vincoli e con un briciolo di pazzia in più a renderla saporita. Sono parecchi i
gioielli sparsi, ma ce n’è uno che vale la pena di riportare per intero, un po’
per esempio e un po’ per rendere onore al suo autore. Si tratta del 40°
Chorus di San Francisco Blues:
“E quando la testa mi comincia a girare, e ridono tutti gli amici, e il denaro
mi casca dalla tasca, e oro dalle mie orecchie, e argento esce volando e
esplodono rubini, salto su & mangio, e canto un’altra canzone, e caccerò
altro vino nella pancia, perché sapete, che ha detto Omar Khayyam, è meglio
stare allegri, con l’uva allegra, che avere musi lunghi, guaendo tutta la
notte, cercando un senso, che non esiste”.
venerdì 28 dicembre 2012
Francis Scott Fitzgerald
Dopo aver vissuto per anni, tutta l’età del
jazz, ben al di là delle proprie possibilità economiche creative ed emotive,
Francis Scott Fitzgerald si trova a fronteggiare la battaglia finale con conti
lasciati in sospeso per troppo tempo. La bolla alimentata con una vena di
romantico abbandono si espande e si gonfia increspando la superficie, una
scintillante evanescenza destinata a esplodere come ogni bolla che si rispetti.
Francis Scott Fitzgerald mette un’ipoteca pesante sulla speranza di una seconda
chance, e all’alba del 1936, le sue condizioni sono così descritte da Kyra
Stromberg in Zelda e Francis Scott Fitzgerald: “Non ancora
trentanovenne, è un uomo stanco, malato, sfinito. Scrivere racconti diventa una
costrizione insopportabile. Si impone di lavorare, aiutato dalla sua mano
felice. Gli argomenti dei suoi testi divengono artificiosi o casuali,
addirittura anacronistici, la scrittura è affrettata. Per la prima volta gli
vengono riproverate imprecisioni stilistiche, anche se Dorothy Parker gli riconosce
che potrebbe anche scrivere cose brutte, ma queste non sarebbero mai scritte
male”. Tutto quello che riesce a mettere insieme, con somma fatica, è la
descrizione del suo fallimento. Non ha altri colpi da sparare e allora rende
spettacolare e infinito, come un attore senza battute che non sa lasciare il
palco, spiegando con Il crollo la forma dell’estremo limite umano, il confine
finale visto che “l’impatto dell’ultimo colpo è stato più violento dei due
precedenti, ma di natura identica: la sensazion di trovarsi al crepusclo in un
poligono di tiro deserto, con un fucile scarico in pugno e i bersagli
abbattuti. Nessun problema in vista: semplicemente un silenzio, e come unico
rumore il mio respiro”. La micidiale convergenza di malattia, disillusione (“La
condizione dell’adulto senziente è una condizione di infelicità circoscritta”),
stanchezza e solitudine lo porta a paragonarsi a una stoviglia inutilizzabile,
dato che “quello che aveva davanti non era il piatto ordinato per i suoi
quarant’anni. In realtà, dato che lui e il piatto erano una cosa sola, si è
descritto come un piatto crepato, di quelli che non sai se valga o no la pena
conservare”. Il crollo non fa che certificare l’impossibilità di una via d’uscita:
“attenzione, fragile” è la dicitura che, nel marzo 1936, inaugura la parte
finale ed è un grido accorato, sentito, scomodo, lancinante, vero, e ossessivo.
E’ la confessione di un fallimento a più strati che scalfisce anche la natura
più intima dello scrittore che “non ha bisogno di certi ideali, a meno di non
crearseli da solo, e il qui presente ha smesso”. Anche se sta lavorando a Gli
ultimi fuochi,
uscito ormai postumo, Il crollo sarà il suo epitaffio, accolto con
costernazione anche dagli amici più vicini come Hemingway e John Dos Passos.
Zelda, la Costa Azzurra, le canzoni di Cole Porter sono lontani ricordi ormai
offuscati da “troppe lacrime, troppa rabbia” e per dirlo con Walt Whitman,
Francis Scott Fitzgerald si trova in un angolo dove “il luogo è augusto, le
circostanze avverse”.
martedì 25 dicembre 2012
Chuck Klosterman
Cosa può fare un ragazzo del North Dakota, dove
la massima eccitazione quotidiana è la discussione sulla potenza del motore dei
trattori, e l’inverno occupa tre delle quattro stagioni che dovrebbero
susseguirsi nell’anno? Se poi è uscito di casa per la prima volta nel bel mezzo
della guerra fredda cosa gli rimane? “Poteva succedere di tutto, e forse prima
o poi sarebbe successo, ma non sarebbe cambiato nulla. Nessuno sembrava
preoccuparsi troppo per il gran numero di testate nucleari che i sovietici ci
puntavano addosso: per quanto ne sapevo io, eravamo sull’orlo della guerra
ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, ma questo faceva
parte dell’essere americani” ammette con un certo candore Chuck Klosterman
nelle prime pagine di Fargo Rock City ed è chiaro che quando gli capita in mano un
nastro con Huey Lewis da una parte e un colata incandescente di heavy metal
dall’altra non c’è partita. Come capita sempre, come è capitato a tutti
(conosciamo molto bene quella sensazione) all’improvviso Chuck Klosterman,
comincia a sentirsi meno solo e meno alieno. Sa che le immagini dell’heavy
metal e del rock’n’roll sono costruite dettaglio per dettaglio ma, per sua
ammissione, è “troppo stupido per essere influenzato dalla follia del
marketing” e si concede, così come concede a tutti noi, il beneficio di aver
trovato qualcosa nella musica (e non solo nell’heavy metal) che “non aveva
niente a che fare con le cose di cui si parlava, il suo significato era quello
che tutti potevano dargli”. Fin qui, le fondamenta di Fargo Rock City sono solidissime e
concrete soprattutto perché la traballante apologia dell’heavy metal più
posticcio e banale, dei luoghi comuni più elementari e consunti e dell’idea che
anche entità come Mötley Crüe o Guns N’ Roses possano assumere valenze che
forse nemmeno i loro componenti riconoscerebbero, risulta immediata e
simpatica. Quello che succede addentrandosi in Fargo Rock City è che Chuck Klosterman
riempie il serbatoio fino all’orlo di heavy metal, poi parte per la tangente
frullando senza tante esitazioni i suoi excursus autobiografici con le vicende
dei Van Halen o degli AC/DC, con le logiche (piuttosto meccaniche)
dell’industria discografica, con i riflessi sociologici dell’alienazione nella
provincia americana e spruzzando tutta la miscela con un sarcasmo effervescente
e senza inibizioni. Il colorito ibrido che alla fine si cela dentro Fargo
Rock City
si regge sulle gambe come il frontman di un gruppo heavy metal alla fine di un
tour worldwide. Non cade, però Chuck Klosterman sente la necessità di precisare
le sue intenzioni, neanche stesse firmano una resa: “Vi starete chiedendo
perché adesso stia parlando di tutto questo, e la risposta è che lo ritengo un
esempio perfetto per mostrare quanto sia importante la percezione delle cose,
che poi è il punto di partenza da cui costruiamo il contesto delle nostre
vite”. Lo stile va su e e giù a birra e tequila (e ci sta), ma Fargo Rock
City è
molto più saggio (e rock’n’roll) di quel che appare.
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