Leonard Cohen che volta le spalle alla telecamera mentre Sonny Rollins suona un assolo in Who By Fire riassume in un’immagine il senso di una vita dedicata alla ricerca della bellezza. Come diceva il collega e mentore di Leonard Cohen, Irving Layton,“il genio sta nel vedere le cose esattamente come stanno”, e per crescere in compagnia Leonard Cohen si è dedicato da García Lorca, Ray Charles e Hank Williams. Seguendo il medesimo istinto la lettura biografica di Ira B. Nadel ripercorre soprattutto le opere e non nasconde i lati più in ombra di Leonard Cohen, anche se cerca di mitigarne gli effetti: l’abuso di droghe, l’evanescenza dei legami sentimentali, la depressione strisciante, i viaggi continui, la vita a Idra, il ritiro zen, i disastri economici, le turbolenze costanti. Lo svolgimento è un po’ meccanico, anche se puntiglioso nel riportare tutti gli anfratti famigliari, le controversie e la personalità combattuta di Leonard Cohen che ammette: “Sono molto più a mio agio con me stesso, anche se a ispirarmi sono sempre conflitti che non so se saprò mai risolvere”. L’elenco delle opere, le canzoni, le poesie, i romanzi, i diari (compresi gli scampoli di un’autobiografia inedita) è funzionale al racconto senza particolari spunti. Sarà per quello che spicca, ancora una volta, la voce di Leonard Cohen che riassume così i suoi tormenti: “Non penso che gli esseri umani siano così unici e distinguibili l’uno dall’altro e che, tra tutti i viventi, esista solo uno speciale e perfetto amante per ogni speciale e perfetta amata così che possano esser premuti e fatti combaciare insieme come pezzi di un puzzle Ogni persona che decidiamo di amare ci conduce su un diverso sentiero dell’amore, ci cambia e noi cambiamo lei mentre ci muoviamo insieme, e l’amore offre una gran varietà di sentieri, come qualsiasi paesaggio”. L’imbarazzo della scelta non dura all’infinito ed è interessante scoprire le considerazioni di un Leonard Cohen ormai diventato molto più saggio: “Strano per me trovarmi del tutto privo di desiderio. Mi costringe a dover ricominciare tutto da capo, a trovare una nuova struttura a cui appoggiarmi. Non avere desideri. È una specie di amnesia. Mi lascia con troppo tempo a disposizione e mi spinge alla metafisica. Non avevo mai pensato che il desiderio fosse così fragile”. Vale la pena districarsi nel vortice delle peripezie esistenziali per tornare alla bellezza della scrittura che per Leonard Cohen si rivela, una volta di più, una forma di autodifesa: “Ognuno ha i suoi guai. Scrivere è la mia occupazione e la uso per curare i miei guai. Quando mi sento soddisfatto dal mio lavoro parlo di vocazione, altrimenti lo chiamo mestiere”. Tra le numerose testimonianze riportate da Ira B. Nadel merita di essere ricordato il parere di Jennifer Warnes, una delle più felici interpreti delle canzoni di Leonard Cohen: “La facilità di linguaggio, la consapevolezza del suo ruolo in ambito culturale e il rispetto verso la tradizione letteraria fanno sì che Leonard, grazie al semplice uso di rime interne o alle qualità eterne del linguaggio, scriva canzoni capaci di catturare l’anima già solo per la struttura dei testi”. Quando tocca a lui sgrovigliare i segreti del songwriting accenna a rivelazioni che restano molto distanti: “Il mio modo di procedere consiste nel denudare una canzone e cercare di capirne il senso durante la scrittura. Ogni canzone comincia con il consueto anelito di liberazione, di salvezza interiore, che è un bel modo di corrodere lo spirito. All’inizio del processo, non è per nulla chiaro di cosa tratti la canzone”. È una percezione che si può adattare a “una vita” consumata dall’arte, in gran parte inafferrabile nei suoi motivi più intimi e profondi. In effetti, Leonard Cohen ha detto: “Non sono mai uscito da me stesso”, e si capiscono così anche le difficoltà dei biografi in cerca della verità.
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