Mentre sul giradischi scorre For The Sake Of The Song di Townes Van Zandt, una porta si apre su uno scenario da incubo che coinvolge quattro ombre, una pistola e un “tipo di casino che non può essere ripulito”. Ne succedono parecchi, in Dove tende la luce, che si distingue in due parti, una incastrata dentro l’altra. All’inizio David Joy particolareggia con estrema accuratezza i luoghi della contea di Jackson, tra gli Appalachi della Carolina del Nord, dai dettagli della torre idrica alla cupola bianca della scuola da cui Jacob McNeely, giovane protagonista e narratore, ha preso le distanze fino all’ambiente naturale circostante, cani e trote in tutte le loro varietà compresi nella mappa. La definizione dei luoghi come se fossero galassie distanti anni luce e sono soltanto posti in una contea dove vivono esseri umani sbandati e limitati come i McNeely. Se nella prima parte, vengono indicati con meticolosa sistematicità, nella seconda sono solo i punti di congiunzione di un diagramma invisibile, uno spazio tra “qui” e “lì”, dove i protagonisti sono legati tra loro, a partire da Jacob, figlio di una stirpe per cui “infrangere la legge era una questione di sangue quanto l’altezza e il colore dei capelli”. La famiglia intera ha qualche problema: “Mamma sniffava crystal, papà gliela vendeva, e io non avevo mai avuto le palle per andarmene”. Charlie McNeely, il padre, è una leggenda, abituato a far sparire i nemici, i traditori, le spie. Un ras cresciuto disseminando corruzione e cadaveri, convinto che “la storia la scrivono quelli che restano in vita” e va da sé che i morti non possono smentire. Un uomo con un buco al posto dell’anima e Jacob, nonostante il nome biblico, sa di non avere speranza, come tutta la sperduta comunità none trash che lo circonda. Quando i personaggi prendono il sopravvento, il territorio diventa un dedalo in cui i passi sono già scritti, come se il genius loci di quell’angolo sperduto e miserabile dell’America determinasse i destini individuali, senza possibilità di appello. Per Jacob, che crede ancora nella redenzione e vive una tormentata love story con la coetanea Maggie Jennings, fresca di diploma, vorrebbe aiutare (almeno) lei andarsene, se proprio non può salvare se stesso. È una missione impossibile: la brutalità del padre non ha alcun limite e così tradimenti e vendette si sovrappongono, fornendo a David Joy lo spunto per raffiche di colpi di scena. Non c’è spazio per effetti spettacolari, però: più che una voce, quella di Jacob è una testimonianza e una visione d’insieme di una terra arida, acida e senza scampo. David Joy la rende benissimo con una scrittura asciutta e lineare, capace di cambiare registro in un secondo, e capita spesso: non si può specificare di più, perché, per quanto breve ed essenziale, Dove tende la luce è un groviglio infernale in cui lo stesso Jacob è infine costretto ad ammettere: “Quella era la mia realtà: il dolore, la vergogna, e tutto quello che comportava. Quindi aspettare di morire era una cosa che conoscevo bene, e non era la morte che mi tormentava”. È per quello che tra le canzoni del terzo album di Townes Van Zandt, quella nascosta tra le pieghe è piuttosto Waiting Around To Die che, insieme all’epigrafe di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, rende benissimo il tono cupo e lacerante di Dove tende la luce.
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