Certo che John Irving non riconosce tregua ai suoi personaggi e non gli risparmia niente: stupri, incesti, suicidi. Eppure, cambiano i destini, in un istante, le vite vengono travolte senza preavviso, ma non di meno c’è sempre un alito di speranza nel protrarsi delle diverse incarnazioni dell’Hotel New Hampshire. Si comincia con un orso (State of Maine) e si finisce con un’orsa (Susie), ma la costante è un cane, (con un nome che dice tutto: Sorrow), anche quando è morto e imbalsamato, dato che “il dolore galleggia. E anche l’amore. E, prima o dopo, pure la rovina. Anche la rovina galleggia”. Tra il 1956, in “un’epoca in cui tutti distoglievano lo sguardo assai spesso” e con Elvis che impazzava con Heartbreak Hotel, e il 1964, alla famiglia Berry ne capitano di tutti i colori. Guidata dal padre, John, che ha la vocazione per alberghi popolati da fantasmi e tribù assortite, viaggia sull’asse tra New York e Vienna, andata e ritorno, ed è protagonista di una serie di avventure rocambolesche. Il gusto della parodia, coltivato con estrema decisione da John Irving, è un diversivo importante, ma dietro i colpi di scena che arrivano a raffica, la dimensione della famiglia è indagata con un occhio di riguardo, perché nonostante la natura eccentrica (almeno in apparenza) “tutti quanti avevano bisogno di tempo per crescere, diventare più vecchi e più saggi (se l’una cosa comporta l’altra)”. Le dinamiche si ripetono ovunque sia la collocazione dell’Hotel New Hampshire con la sensazione diffusa e persistente che “l’un per l’altro, eravamo normali e gradevoli, noi, come l’odore del pane; comuni come la pioggia. In senso a una famiglia, anche le esagerazioni hanno un senso: sono sempre esagerazioni logiche, e nient’altro”. Con quel tono irriverente, caustico, ma spesso anche commovente, che è il suo marchio di fabbrica John Irving, insiste nello scorticare l’intima natura dell’umanità convinto che “anche se fossero scomparsi dal mondo la guerra e la fame e gli altri pericoli, gli esseri umani avrebbero pur sempre potuto imbarazzarsi a morte l’un l’altro. La distruttività impiegherebbe più tempo, in questa maniera, ma la distruzione non sarebbe meno completa”. Le storie nella famiglia Berry si susseguono senza sosta, tra l’amarezza (“Il dolore rende intima ogni cosa”) e la proiezione verso il futuro (“E così continuiamo a sognare. Così inventiamo le nostre vite”) con John Irving che, sprezzante dei singoli destini e convinto che “tutto è favola”, si concede ogni iperbole possibile e immaginabile a partire dagli incipit, che sono sempre delle sferzate. Eccone uno, tra i tanti: “Sabrina Jones, che m’insegnò a baciare, e la cui bocca mobile e profonda, non dimenticherò mai, trovò l’uomo che poteva sondare il suo mistero, con o senza denti; sposò un avvocato della ditta per cui lavorava e ebbe tre figlioli sani e robusti (Pim pum pam, come diceva Franny”). I modelli di riferimento, ampiamente citati, sono Il grande Gatsby e Moby Dick, ma, a tratti, e proprio per la vocazione di John Irving a partire per la tangente, il racconto si fa farraginoso, se non proprio caotico e surreale, finché il finale prorompe dando un senso a ognuno degli episodi grotteschi che affollano il romanzo. Dovremmo avere tutti un Hotel New Hampshire dove andare, dove poter crescere in pubblico, tenendo comunque ben presente che: a) “la politica è sempre idiota”; b) “la vita è seria, ma l’arte è allegra”; c) “bisogna continuare a passare oltre le finestre aperte”, e questo lo si capisce soltanto affidandosi a John Irving. Comporta qualche rischio, ma ne vale la pena.
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