Sherman McCoy è un uomo senza particolari qualità all’apice della carriera. Gestisce in allegria milioni di dollari, ostenta la ricchezza come un distintivo, compresa la residenza altolocata in Park Avenue e le ridondanti necessità famigliari. Il lusso è ordinaria amministrazione e, per soprammercato, ha anche un’amante piuttosto volitiva. Sembra inarrivabile e intoccabile poi basta una telefonata distratta, un’uscita sbagliata nel Bronx, densa di presagi e di significati, per ribaltare lo status quo. Da lì in poi, la sensazione di precipitare con Sherman McCoy è costante nell’arco di tutto Il falò delle vanità, così come è continua l’impressione che Tom Wolfe abbia soltanto increspato la superficie. Nella tensione spasmodica dietro l’intricata struttura che scatta come una trappola attorno a Sherman McCoy, con il groviglio all american di politica, giustizia, finanza e mondanità, c’è un richiamo al peso specifico di uno o più errori nelle valutazioni etiche e morali della “gente che non aveva paura di prendersi ciò che voleva”. C’è qualcosa di angosciante nello sviluppo della trama, anche se i meccanismi degli incroci e dei contatti risultano spesso meccanici. Il protagonista è circondato da un coro tragico che attinge linfa vitale alla sua disavventura per motivi disparati ma convergenti: il reverendo Bacon, l’avvocato Vogel, il procuratore Weiss, il suo sostituto Kramer e, last but not least, Peter Fallow, cronista trasandato (e inglese, un punto di vista specifico da ricordare), ma efficace al momento giusto. Non ci sono soltanto loro: i personaggi che alimentano Il falò delle vanità sono una moltitudine, disposti da Tom Wolfe secondo vari livelli di peso e importanza. Sherman McCoy catalizza e magnetizza tutta l’attenzione, ma non è l’unico a dover difendere i propri sotterfugi. Tutti hanno qualcosa da mascherare o da nascondere: le ipocrisie piovono a grappolo e le sorprese sono dietro l’angolo, una dopo l’altra. A volte lo stile è farraginoso nell’intenzione di Tom Wolfe di dare forma compiuta al teatro umano di New York, le cui frizioni e contraddizioni si trasmettono come scariche elettriche da personaggio a personaggio. E a tratti la ricostruzione delle classi sociali e delle divisioni etniche è limitata all’essenziale, con un tono che, sfociando spesso nella parodia, pare adeguato a celebrare gli azzardi e le vertigini, i bluff e gli eccessi dei “padroni dell’universo” di Wall Street (compresa una canna fumaria da trecentocinquantamila dollari) e Tom Wolfe irride i suoi protagonisti rendendoli spesso buffi, anche se dietro la loro goffaggine c’è sempre un proposito cinico, se non proprio crudele. Succedono molte cose, e non tutte risultano a fuoco, ma in fondo Il falò delle vanità era, all’alba del 1987, il suo primo romanzo e, pur non essendo un capolavoro, senza dubbio ha colto il senso del momento in cui sono saltate le linee di demarcazione tra il sistema giudiziario, e quello politico e dei mass media nella società americana, in anticipo sui tempi, come poi sarebbe successo un po’ ovunque nel mondo.
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