Quello di Stephen Crane è uno sguardo profondo, che va dentro l’esperienza bellica, dove illustra con metodo e accuratezza le contraddizioni dell’ambizione di scoprire la gloria della guerra tra “le cose belle potenti” fino a considerare “il magnifico pathos del proprio cadavere”. L’attesa spasmodica del giovane Henry Fleming pronto a partire con le truppe dell’Unione costituisce il prologo dello “spettacolo blu”, come lo chiama ripetutamente Stephen Crane, è dovuta al fatto che gli “era stato insegnato che in battaglia un uomo si trasforma: in questo cambiamento vedeva la propria salvezza” e aspettare di entrare in azione è diventato “un supplizio”. L’assurdità di questi pensieri svanisce ben presto. L’impatto con la prima battaglia è tragico: se i commilitoni parlavano “di vittoria come di una cosa che conoscevano bene”, la realtà sul campo è fatta di una massa indistinta, frutto di “una notevole assenza di pose eroiche” e parte di un organismo morente confuso con il paesaggio naturale, che avvolge gli scontri come un sudario pur restando indifferente ai destini umani. Una cornice sfuggente che Stephen Crane sa rendere in modo vivido: non si lascia sfuggire nulla, non un particolare che sia uno, con una visione d’insieme complessiva che è anche un’ottica ravvicinata e microscopica. Quando si sviluppa “una strana esistenza interamente fatta di battaglie”, tutto quello che si può vedere è “un vasto alveare di uomini ronzanti intorno a cerchi frenetici”. In quel caos, il soldato Henry Fleming vive un capovolgimento copernicano rispetto alle premesse, quando provava “il brivido del desiderio di guerra”, e fugge nei boschi. Colpito dal fuoco amico, arriva a giustificarsi dicendosi che “era scappato con discrezione e dignità” e giunge al momento in cui “sognava posti appartati dove potersi abbandonare senza pericolo. Per cercarne uno doveva battersi contro la marea del proprio dolore”. In qualche modo Henry Fleming se la cava, trova rifugio, qualcuno gli cura la ferita alla testa, ma là fuori lo aspetta ancora la guerra, che non è quella che a cui ambiva: i miti hanno lasciato il posto ai tormenti, al fango, alla fame, alla morte. Ogni singola frase è cesellata da Stephen Crane come se fosse lì, nella testa e attraverso i sensi di Henry Fleming che “si meravigliava considerando la quantità di emozioni ed eventi che si erano affollati entro termini così stretti. Si disse che dei pensieri magici dovevano avere esagerato e ingrandito ogni cosa”. Anche nelle scene più caotiche e tumultuose non si perde un dettaglio, evidenziando la cultura del reggimento, ormai “una macchina rotta” nel continuo ribaltamento dei fronti, e così come cambia la linea dei combattimenti (il più delle volte indefinita), così vengono travolte le vite. Gli ufficiali spingono i soldati al massacro, indifferenti alle perdite e ondate di corpi si lanciano verso la morte che è un’altra parola per definire la guerra come un rito arcaico, una specie di fede articolata nel sangue, un sacrificio senza alcuna pietà, ricorrente e reiterato, che si compie nell’assurdità finché “nelle loro menti sorsero, con dovizia di prove, storie del disastro”. Per Joseph Conrad, Il segno rosso del coraggio è un romanzo “così virile e così pieno di tenera pietà, in cui non una sola nota declamatoria rovina l’autentica felicità verbale, dove l’analisi e la descrizione si fondono nel continuo fascino di uno stile personale”. Potrebbe bastare, ma, infine, Il segno rosso del coraggio smentisce anche l’antica e consunta regola del “parla di ciò che conosci”: Stephen Crane non ha mai avuto un’esperienza diretta della guerra eppure l’ha compresa e raccontata meglio di chiunque altro. Fondamentale.
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