Antropologia del turchese è un libro che si annusa: Ellen Meloy ci porta dentro ai fiumi, sulle piste, tra le danze dei navajo, sull’oceano e nel deserto, a scoprire “la geografia delle umane possibilità”, dove il senso del corpo si identifica con quello del luogo. Con un gusto specifico, allenato a coltivare il dettaglio, le sue riflessioni su deserto, mare, pietra e cielo, vengono vissute con una meticolosa attenzione e nel rispetto del silenzio, per ascoltare e perché “il silenzio invita all’umiltà”. La ricerca della solitudine, nella e della natura, è un’attrazione magnetica, e non a caso emerge proprio quando si trova dentro, nell’alveo di un fiume che scava nella roccia, come nella vita. Secondo Ellen Meloy “il legame fra l’io e un luogo non è conscio, nulla può la ragione, in questo senso, ma esclusivamente sensoriale. Istinto e confidenza sono la nostra unica bussola, il fiume celebra ciò che noi non sappiamo più celebrare: il nostro spirito, l’eternità che è di tutte le cose”. È qualcosa che può prendere la forma di un miraggio, una leggenda, un rito, un colore (il blu all’ennesima potenza), un pesce, di due serpenti (maschio e femmina) o dell’intimo legame tra le api e i fiori, così come è descritto, guarda un po’, in Guida all’intraprendenza sessuale. Ellen Meloy si chiede se, in fondo, “la percezione sensoriale non sia dunque l’unico mezzo di cui disponiamo per tracciare una mappa interiore del mondo”. Il confronto, continuo e serratissimo, con la wilderness esplora “il potere mistico delle pietre” o quella sensibilità per la luce che “può plasmare una vita intera” ed è un assiduo nominare ogni cosa, che sia reale, o meno. Stratificandosi secondo una sedimentazione tutta sua, Antropologia del turchese sovrappone una guida botanica a un diario di viaggio, la ricostruzione dell’albero genealogico di Ellen Meloy, che la riporta agli albori di una nazione, ricordando nel frattempo che “poche culture sono più ossessionate dall’identità di quella americana”, fino a celebrare “una forma di sapere indiretta e obliqua nella sua stessa essenza”. Dall’altopiano del Mojave alle trasparenze delle Bahamas, i riflessi sono condizionati dalla scrittura perché, proprio come dice Susan Brind Morrow, “le parole partono come descrizioni. Sono prismi, veicoli delle recondite, più profonde sfumature del pensiero. Le si può osservare da differenti angolazioni finché la luce non vi penetra in un’inattesa esplosione di colore”. È proprio quella dimensione che Ellen Meloy cerca con insistenza, convinta “che le parole giuste scaturiscano solo dallo spazio perfetto di un luogo che si ama”. L’Antropologia del turchese colloca l’identificazione con i luoghi in una cornice che va ben oltre l’essenziale della topografia, laddove “è un senso di appartenenza, una voce che sussurra questo è il tuo posto”. Può essere “una terra di conseguenze e complicazioni” o “una terra di silenzio, sabbia e delirio”, ma ognuno di quei posti può svelare “misteri più intriganti di qualsiasi lucido pensiero, ad esempio come, frequentando un luogo che di umanità ne vede poca o affatto, si cominci a intuire il senso ultimo dell’essere umani”. I contrasti sono l’anima dell’Antropologia del turchese, che Ellen Meloy sa leggere senza lasciarsi imbrigliare dai luoghi comuni, ben sapendo che “la natura è in costante rivolgimento, muta senza sosta per far fronte alla novità, e pur restando fedele al proprio bisogno di fare ordine, si apre a un caos costruttivo, sano, alla lotta per la vita di creature diverse e complesse”. Il limite è proprio quello: come diceva John Fowles, “la cosa più profonda che possiamo apprendere a proposito della natura non è tanto il suo funzionamento, quando il suo essere poesia della sopravvivenza”. Allora, anche il colore in sé diventa una destinazione e Ellen Meloy scrive: “Il blu mi sembrava un bel posto in cui andare, un paese in sé, superiore, imperturbabile, dove non eri costretto a parlare con nessuno”. È una bella meta, e per arrivarci ci vuole molta pazienza, ma è un’oasi di luce.
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