Un atterraggio di fortuna. Il Super Bowl. La pubblicità. Il buio, lo schermo nero, l’assenza di messaggi e di segnali che implica il ritorno alla memoria come una sorpresa unica perché da noi ormai “non viene più quasi niente fuori dal nulla. Quando un elemento mancante viene a galla senza l’ausilio di alcun supporto digitale, ognuno lo annuncia all’altro con lo sguardo perso in lontananza, l’aldilà di ciò che si sapeva un tempo e che è andato smarrito”. Ed eccolo lì, Il silenzio. Non sono chiari i motivi dell’improvviso black out: il preludio di una guerra mondiale e/o il risultato di una catastrofe nucleare distinguono “l’abbraccio casuale che segna la caduta della civiltà mondiale”. L’incognita nell’equazione di Don DeLillo non è la causa, le cui dimensioni apocalittiche sono propedeutiche piuttosto a evidenziare le risposte dei personaggi, giunti a una condizione cruciale: “Niente più meraviglia, niente più curiosità. Il senso dell’orientamento gravemente compromesso”. Sganciati dalle protuberanze digitali, Jim Kripps e Tessa Berens, Martin e Diane Lucas e Max Stenner si ritrovano coinvolti in una danza di ipotesi, finché arrivano a considerare il fatto concreto (l’unico possibile) che “qualunque cosa stia succedendo là fuori, noi siamo pur sempre persone, i frammenti umani di una civiltà”. L’insistenza sull’idea di una civiltà che da una parte si sta disgregando e dall’altra prova a giocare su un equilibrio fragile, costituisce quel grumo narrativo rarefatto e concentrato che Il silenzio svolge con precisione geometrica, costringendo ogni possibile valutazione a considerare che “lo stato delle cose, il mondo esterno, tutto questo avrebbe richiesto un altro tipo di sguardo non appena le circostanze l’avessero consentito”. Le convergenze iniziali diventano traiettorie imprevedibili e mentre uomini e donne provano a collimare esigenze irrinunciabili (curarsi, capirsi) un dubbio amletico comincia a farsi strada: “E se non fossimo davvero quello che crediamo di essere? E se il mondo che conosciamo venisse sottoposto a un nuovo assetto davanti ai nostri occhi mentre stiamo fermi a guardare, oppure mentre stiamo seduti a parlare?”. Gli interrogativi sono virulenti, spuntano a sorpresa dove le linee temporali si intersecano (“Le cose semplici, descrittive: che fine avevano fatto?”) e quasi come una resa, Il silenzio è il riflesso di come “la situazione contingente ci dice che non c’è altro da dire se non quello che ci viene in mente, perché tanto alla fine nessuno di noi ne conserverà memoria”. Don DeLillo aggiusta la bilancia misurando con tutte le precauzioni necessarie quando pesa la tecnologia sulle nostre vite, ormai legate a sistemi che “più sono avanzati più sono vulnerabili”, non ultima l’intelligenza artificiale “che tradisce ciò che siamo e il modo in cui viviamo e pensiamo”. La forma, elusiva in modo esponenziale, con tutte le ellissi e le reiterazioni possibili e immaginabili, riesce a contenere lo stridore della realtà (“Non dobbiamo far altro che considerare la situazione in cui ci troviamo”), a toccare i nervi scoperti dell’attualità (“La gente deve continuare a ripetere a se stessa di essere ancora viva”) e, in un tempo parallelo e intangibile, prova ancora a trovare “in tutte quelle sillabe, da qualche parte, qualcosa di segreto, recondito, intimo”. Oggi, Il silenzio ci dice chi “siamo noi, più o meno”, e chi è Don DeLillo al 100%.
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